1. Introduzione
Il fenomeno Covid-19 ha dato vita, negli ultimi mesi, a una letteratura fiorente e piuttosto variegata. Se ne può capire bene il perché. Oltre all’impatto sociale, economico e politico che il virus ha avuto a livello globale, l’occasione è stata ed è ghiotta per affrontare temi di antica data o per mettere alla prova le teorie più svariate, come quella relativa allo stato di eccezione permanente in cui vivremmo (Agamben 2020) fino a più vaste tematiche di biopolitica (De Carolis 2020), di politica ambientale, di politica economica (Dalla Vigna 2020; Di Cesare 2020; Marchetti-Romeo 2020; Chomsky 2020); c’è chi ha insistito sulle conseguenze di rottura della pandemia (Harari 2020), chi invece ha sottolineato i tratti di continuità (Houllebecq 2020).
Gli individui isolati l’uno dall’altro e costretti in cattività durante il famigerato lockdown hanno poi fornito ulteriore materiale per le analisi e i consigli dei life coaches, categoria professionale che spopola ormai da diversi anni. Si possono trovare libri e opuscoli che distribuiscono ricette costellate di rituali quotidiani per cavarsela meglio nella situazione di isolamento o per riuscire, finita questa emergenza di cui in realtà non si vede la fine, a ritrovare un equilibrio e tornare a una vita normale (cfr. Ter Kuile 2020; Wilson Guttas 2020).
In questo panorama, c’è da prendere atto del fatto che ciò che le persone cercano non è tanto una strategia per riprendersi lo spazio della sfera pubblica, quanto piuttosto consigli di buona vita individuale per far fronte a una situazione di sospensione della socialità. In una formula stenografica: mentre teorie apocalittiche sembrano prendere le sembianze di fenomeno storico a pieno titolo, sorgono e vengono ricercate regulae semi-monastiche che indicano la retta strada della fuga mundi.
Le coloriture religiose di questa formuletta sono intenzionali. La tesi che in queste righe vorrei sottoporre a scrutinio è infatti la seguente: il fenomeno Covid-19 ha portato a particolare emersione storica talune caratteristiche latamente antropologiche che spesso sono state prese in carico e declinate storicamente dall’apocalittica e dall’agire rituale, non di rado dal loro intreccio. I modi di questa presa in carico sono poi in grado di dar vita a una o a un’altra forma di socialità, a una o a un’altra forma di vita. Ma ciò che viene modulato e messo in relazione è incarnato da due noccioli antropologici, a cui è non solo possibile, ma opportuno, dare nome e cognome delineando da un lato le caratteristiche costitutive di ogni apocalittica, dall’altro quelle fondanti di qualsiasi prassi rituale. Inizierò quindi col chiarire questi due dispositivi in generale, per poi poter andare a guardare meglio quale sia oggi la loro declinazione; e quale altra, poi, potrebbe essere.
2. Non più e non ancora, ovvero sospendere senza sostituire
Il termine «apocalisse» in senso etimologico non significa altro che «togliere il velo, disvelare, rivelare». Diciamo dunque pure: rivelazione. La cosa specifica che viene rivelata, se la fine tragica di ogni mondo umano possibile o il Regno dei Cieli, se l’universo concluso del progresso capitalista o quello pacificato del socialismo realizzato è, in sede definitoria, inessenziale. Ciò che più conta adesso non è la contesa sul cosa verrà, ma sul fatto che ancora non vi sia; il mondo, insomma, come cosa di là da venire. Questo movimento virtuale verso il futuro viene spesso, nelle visioni apocalittiche, accompagnato da una narrazione peculiare del passato, non di rado di natura mitologica. Anche qui: che un tempo vi fossero Adamo ed Eva nel Paradiso Terrestre, il regime di produzione feudale o i bei tempi andati in cui si stava meglio pur stando peggio non è per il momento rilevante. L’importante è che quel passato di cui si racconta non vi sia più. Perché sono questi due momenti, il non più e il non ancora a comporre, assieme, la grammatica dell’apocalisse. Il dispositivo apocalittico definisce il mondo presente attraverso una duplice negazione, senza aggiungere caratterizzazioni positive: esso non è come è stato e non è come sarà.
Delineata in questo modo, non è difficile capire a quale nocciolo antropologico l’apocalittica faccia capo. Essa è infatti resa possibile, nelle sue configurazioni storiche, dalla facoltà umana di negare un contenuto di coscienza senza perciò rimpiazzarlo con un altro. Dalla più banale asserzione negativa – «Matteo non è bello», il che non significa in nessun modo «Matteo è brutto») – alla più sofisticata operazione teorica – ad esempio l’epoché husserliana –, il dispositivo che opera è lo stesso: la sospensione di un contenuto senza il suo rimpiazzo con un altro. La sua applicazione alla storia umana, si capisce, può portare con sé una nuova peculiare tonalità mondana, innervata da nostalgica malinconia e attesa passiva. Il presente rischia di cedere il posto alle sfere virtuali del passato e del futuro, provocando sindromi da «fine della storia».
3. Il presente apocalittico
La definizione in negativo del tempo presente da parte dell’apocalittica può comportare uno stallo del tempo storico, ma uno stallo che fa tutt’uno con un paralizzante eccesso di potenzialità, una esplosione di contingenza. L’analogia tra la condizione apocalittica e la negazione ci può aiutare a chiarire questo punto. Quando diciamo «Matteo non è bello» non diciamo in nessun modo cosa Matteo sia. «Matteo non è bello» significa solo, appunto, che non è bello, ma non ci dà indizi di sorta sul suo essere alto o basso, moro o biondo, toscano o campano. Matteo potrebbe essere, semplicemente, qualunque altra cosa (cfr. Virno 2013).
L’apocalittica, negando che il mondo sia com’era e asserendo che non è ancora come sarà, non dice niente su come il mondo sia. Esso potrebbe essere caratterizzato da, letteralmente, qualunque cosa, tanto dall’unità politica d’Europa quanto dalla III Guerra Mondiale. Ma se il mondo presente può essere in qualunque maniera significa che non è niente di specifico; se è solo come non è stato e come non sarà, senza che si possa dire esattamente come invece sia, esso viene condannato alla sfera della virtualità, quella di ogni contingenza possibile. Ed è proprio questo eccesso di potenzialità a poter risultare paralizzante, a imporre un onere che può risultare eccessivo (cfr. Virno 1999). Una simile lettura del presente come insieme indefinito di contingenze possibili ci porta poi dritti verso il fenomeno della ritualizzazione.
4. Rito e contingenza
L’agire rituale ha una struttura particolare, la quale non si lascia ricondurre a quella propria dell’agire tecnico-strumentale (Rappaport 1999). Il rito è una performance (Turner 1987), ed è in quanto tale caratterizzato da una sostanziale autoreferenzialità (De Carolis 2006). Ciò lo svincola dalla causalità fisica e lo immette nel mondo dell’arbitrarietà. Con maggiore chiarezza: non c’è nessun motivo naturale per cui un rito debba venire svolto così e così anziché in maniera differente. Che per inaugurare una nuova strada o un nuovo centro commerciale il sindaco debba tagliare un nastro è cosa frutto di una scelta, non di una necessità. Le procedure rituali sono, insomma, storiche e perciò soggette e mutamento. Al contempo, il rito è caratterizzato da una spiccata doverosità procedurale. Sebbene la formula «Ite, missa est» sia di fatto sostituibile con un’altra, l’officiante non deve porre fine alla celebrazione in maniera diversa. Un rituale ha una struttura paradossale: può essere svolto in qualunque modo, ma deve essere svolto così e così.
Il rito è quella pratica umana in grado di articolare necessità e contingenza; soprattutto in quei momenti in cui la prima non si vede e la seconda esplode, in quelle circostanze storiche comunemente chiamate critiche. Il sapiens, da animale privo di un da-farsi biologicamente predefinito e costitutivamente spaesato, ha bisogno di gestire l’infinita contingenza della propria esistenza e di condurre la propria vita (Gehlen 2010; Plessner 2006; Accarino 1991; Rasini 2008). Il rito è senz’altro uno degli istituti filogeneticamente più antichi attraverso cui è riuscito a cavarsi d’impaccio, a far pur qualcosa nonostante non ci fosse proprio niente da-fare. Si capisce bene, dunque, per quale motivo è plausibile che l’agire rituale subisca un’accelerazione vorticosa in un eventuale «presente apocalittico»: l’esplosione di contingenza che la duplice negazione del momento attuale comporta – l’adesso non è come il passato e non è come il futuro – reclama, al fine di essere gestita, un incremento della ritualità.
5. Rituali collettivi, comuni e privati
I rituali in senso stretto sono pratiche collettive, o almeno comuni (Bell 2009). Pratiche collettive sono il carnevale o il pranzo in famiglia, ovvero quegli eventi rituali che vengono resi possibili dalla partecipazione fisica, in contemporanea, dei membri della comunità. Pratiche comuni sono invece il seguire tutti quanti, ma individualmente, la finale dei mondiali di calcio davanti alla televisione, o la preghiera musulmana che ogni individuo alla stessa ora recita rivolto verso la Mecca. Quando si parla di rituali, ecco il punto, in genere si parla di pratiche che una certa comunità, in qualche modo, condivide. Alla stregua di una lingua storico-naturale.
Ma vi è un’altra configurazione possibile del fenomeno rituale, ovvero il suo essere privato. Potremmo definire «rituale privato» ogni pratica autoreferenziale che, pur avendo in comune con i rituali la funzione di gestire la contingenza e lenirne l’ansia, è svolta da un individuo solo; un agire che non è né collettivo – il singolo opera il rito in privato – né comune – è il solo a svolgere quel rito. La ritualizzazione privata è una possibilità sempre presente, ma è plausibile che il fenomeno aumenti di intensità laddove la dose di contingenza da padroneggiare si faccia eccessiva e la messa a punto di rituali comuni non riesca a tenere il passo. A queste condizioni, l’attività rituale può tendere più facilmente a privatizzarsi, e certamente anche a infragilirsi. Costellazioni frastagliate di riti singoli, che rischiano di essere tanto frequenti quanto inefficaci; la ritualità rischia di cedere il passo a disordini ossessivo-compulsivi, ai quali i riti sono stati infatti più volte associati (cfr. Boyer-Liénard 2008).
6. Una lettura del presente
Prima di iniziare a guardare il tempo presente con la lente che ho qui provato a costruire, conviene ricapitolare brevemente i punti messi a fuoco e il loro intreccio. Un presente apocalittico è caratterizzato dal fatto di essere definito solo in negativo, come un ciò che non è più com’era e che non è ancora come sarà. Il mondo dell’adesso risulta, così, profondamente indeterminato, privo di contorni. Questo porta con sé una ipertrofia della contingenza, un eccesso di potenzialità che può facilmente tradursi in paralisi pratico-operativa e in registri emotivi da «fine della storia». Un simile eccesso di potenza porta i sapiens verso una frenetica attività rituale, ovvero verso una ripetizione sempre più frequente di atti autoreferenziali in grado di gestire l’aumento di contingenza e l’ansia che ne deriva. Ma si tratta di una attività rituale sempre più privata e fragile, la quale rischia non solo di non riuscire a svolgere il proprio compito ma persino di convertirsi in disordine ossessivo-compulsivo.
Sta di fatto, comunque, che la privatizzazione dell’attività rituale è stata una delle vie privilegiate per gestire l’ansia che deriva da una contingenza in aumento in un mondo in cui i fenomeni di ritualizzazione comunitari sembrano non funzionare più. E negli ultimi decenni, diciamo pure nel corso dell’ultimo secolo, è effettivamente ciò che è avvenuto. Già da molto tempo viene denunciata la morte del vecchio mondo, la sua crisi irreversibile, senza che però se ne riesca a veder sorgere un altro (cfr. de Martino 2002); già da molto tempo il presente vissuto rischia di non avere altra definizione se non quella di un non più e di un non ancora. E non è probabilmente un caso che, parallelamente, abbiano preso sempre più corpo fenomeni di privatizzazione tanto dei rituali quanto delle credenze. Le lingue si parcellizzano, i gerghi aumentano, ogni individuo diventa l’unico esemplare di una propria specie.
Il fenomeno Covid-19 è arrivato ad acuire e accelerare questi processi in corso già da lungo tempo. L’accento apocalittico del presente si è fatto più acuto, l’esigenza di ritualizzazione dinanzi a una situazione così spaesante è aumentata, la sua privatizzazione è stata necessaria a causa del distanziamento fisico. Cos’è il «mondo del Covid»? Viene ripetuto a più riprese: un mondo che non è più come prima e che non è ancora come sarà (Aa. Vv. 2020). I consigli dei life coaches non sono in nessun modo diretti a una collettività, ma a individui singoli: fate che i vostri giorni siano scanditi da una lunga serie di rituali privati, e questo vi aiuterà sia a sopportare il momento presente sia a ritrovare una nuova normalità (Mazzeo 2020, pp. 9-11). Niente di estremamente nuovo, dunque; niente che non fosse già in pieno sviluppo prima dell’avvento del virus. Ma gli ultimi mesi, questo sì, hanno portato a particolare visibilità tanto il fenomeno storico di lunga durata a cui ho qui accennato quanto le invarianti antropologiche che esso rivela: la capacità di sospendere senza sostituire e il padroneggiamento della contingenza che da ciò deriva tramite l’autoreferenzialità della prassi.
7. Un’altra declinazione storica del da-sempre
Sospendere senza sostituire e gestione rituale della contingenza. Queste due caratteristiche specie specifiche di Homo sapiens hanno preso, oggi, una declinazione storica particolare: l’apocalittica anestetizza il presente vissuto, la ritualizzazione privata aumenta il sonno collettivo. Ma da una invariante antropologica non deriva direttamente nessun fenomeno storico (Virno 2003; Mazzeo 2019), ed è perciò evidente che a partire dalle stesse facoltà è possibile una loro declinazione completamente differente. E in questo caso? Cosa significherebbe dare un’altra forma storica a queste nostre facoltà naturali nella situazione presente? Quali sono i risvolti storicamente produttivi tanto dell’apocalittica che dell’agire rituale? Vale la pena, in conclusione, accennare a questa faccenda.
Una esplosione di contingenza causata da una mancanza di definizione positiva del presente non è, di per sé, una condanna alla fine della storia. Anzi: una gestione opportuna delle infinite possibilità che il tempo presente contiene, assieme al suo disinteresse di ciò che è stato e di ciò che sarà, lo libera dall’eredità del mito e dai binari della teleologia. Il mondo, per com’è e come che sia, è ciò in cui viviamo, e ciò in cui vogliamo vivere. Ma la gestione di una simile ipertrofia della contingenza necessita, per essere efficace, di essere condivisa, collettiva, comune. I rituali, anziché messi a punto da individui singoli e isolati, dovrebbero essere pensati e articolati all’interno dello spazio della sfera pubblica.
Quando le misure anti-pandemiche saranno un capitolo chiuso – sperando che ciò accada il prima possibile –, si tratterà di vedere cosa ci avranno lasciato in eredità. Magari ci sarà maggior desiderio di muoversi in direzione di una riappropriazione della sfera pubblica; oppure, all’opposto e coerentemente con quanto avvenuto finora, cresceranno ancora di più una diffidenza e una paura in grado di mantenerci lontani gli uni dagli altri. Ognuno col suo linguaggio cifrato di riti privati, ognuno in attesa del mondo che verrà.
Nessun commento:
Posta un commento