Prendere due (o più volte) il Covid è raro ma possibile: a livello statistico le reinfezioni ufficiali sono monitorate dall’Istituto Superiore di Sanità (Iss) che considera automaticamente «reinfezioni» i casi di persone tornate positive a 90 giorni dalla prima diagnosi. Secondo l’ultimo monitoraggio, pubblicato venerdì in Italia, la percentuale di reinfezioni sul totale dei casi segnalati risulta pari a 5,8%, in aumento rispetto alla settimana precedente (il cui valore era 5%).
Le varianti presenti in Italia
La formidabile contagiosità di Omicron è una delle variabili da cui dipende il rischio di reinfezioni (la fondamentale). Le altre riguardano: quale vaccino si sia fatto, quale booster, da quanto tempo, con quale variante ci si sia infettati la prima volta, come reagisce l’organismo. In particolare, ogni variante di preoccupazione segnalata finora ha aumentato la sua capacità intrinseca di contagiare e, quindi, di sfuggire a immunità precedenti.
Secondo l’ultima indagine italiana (riferita al 3 maggio) BA.2 rappresenta il 93,83% tra le varianti Omicron e sono state rilevate 12 sequenze riconducibili a BA.4 e 6 sequenze riconducibili a BA.5, pari allo 0,47% e 0,41% del totale delle sequenze Omicron, rispettivamente. L’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) ha affermato che l’infezione con Omicron BA.1 fornisce una forte protezione contro l’infezione da BA.2, tuttavia sono stati documentati casi di reinfezione recente anche tra BA.2 e BA.1.
«Diciamo che questo virus ci dimostra la sua capacità evolutiva che è quella di incrementare la sua contagiosità — spiega Fabrizio Pregliasco, virologo della Statale di Milano —. La sua instabilità gli sta permettendo di evolvere in nuove varianti che facilitano la capacità di saper “scappare” sia dall’immunità conferita dalla malattia, sia da quella data dalla vaccinazione».
Questa capacità di SARS-CoV-2 di reinfettare è sempre aumentata, finora, con l’arrivo delle nuove varianti?
«Sì, perché c’è una differenza consistente espressa ogni volta (da Alfa a Delta a Omicron) nelle caratteristiche dell’antigene, in particolare della Spike: questo è un po’ l’elemento che ci preoccupa, è la stessa cosa che viviamo negli antigeni dell’influenza: ogni anno aggiorniamo il vaccino e una quota di persone che hanno subito l’infezione nel passato ritornano a essere suscettibili. C’è quindi la necessità di rinforzare le difese immunitarie con richiami vaccinali aggiornati».
La perdita di immunità che porta alla reinfezione dipende sia dal tempo che passa dall’ultimo contatto con il virus, sia dallo status vaccinale (o di guarito) di ciascuno?
«Certo, e la modifica dell’antigene del virus ci fa perdere la capacità di rispondere in modo adeguato».
Mentre l’influenza si può prendere al peggio una volta all’anno, il Covid attualmente si può prendere anche ogni tre mesi, è vero?
«Sì, questa è la conseguenza del vantaggio evolutivo del virus di cui abbiamo parlato. In questa fase è legata anche alla grande quota di infetti che circolano: con l’influenza abbiamo raggiunto un equilibrio, la quota di suscettibili non è molto elevata».
Qual è l’identikit della persona che si deve aspettare una reinfezione, che caratteristiche può avere?
«Non c’è certezza: non sono solo i più fragili, è chi ha occasioni di esposizione più frequenti e più a rischio, ma non vedo altre caratteristiche intrinseche predittive di una probabilità maggiore di ammalarsi di nuovo».
La probabilità personale, però, dipende anche da alcuni fattori esterni come la vaccinazione?
«Sicuramente chi non è vaccinato rischia di più, o chi ha fatto il vaccino da molto tempo, o chi non si è mai ammalato di Covid. Il soggetto più “resistente” è l’infettato-vaccinato, poi ci sono alcune caratteristiche genetiche personali ancora oggi non completamente conosciute (e questo lo vediamo per tante malattie, come l’epatite C e l’Hiv), legate alla capacità della risposta cosiddetta cellulare, che fanno la differenza individuale».
Anche reinfettandosi, il rischio di avere conseguenze serie è molto diminuito?
«Il vantaggio evolutivo del virus è quello di andare verso la maggior contagiosità e non verso la maggior letalità. È esagerato, però, dire che il virus si è “raffreddorizzato”: alcuni dati ci dicono che si e ridotto di 1/3 rispetto alla patogenicità precedente di varianti come Delta, ma il minor impatto sulla gravità della malattia è legato soprattutto alla diffusione della vaccinazione».
Si sta parlando tanto di aggiornare il vaccino in vista dell’autunno, risolverebbe il problema della perdita di efficacia dei vaccini dopo qualche mese?
«No, purtroppo sarà come con l’influenza, cioè dovremmo considerare la necessità di richiami vaccinali periodici (speriamo su base annuale, anche in termini di praticità). Mi immagino una campagna vaccinale sostanzialmente sovrapponibile a quella dell’influenza e una convivenza col virus che ci dovrà portare ad avere un atteggiamento “ragionevole” nel valutare i comportamenti da prendere, con un’arma fondamentale in più che sono i farmaci antivirali».
Qual è il consiglio vista la situazione?
«Alle persone a rischio consiglio l’utilizzo di mascherine FFP2 e ancora attenzione ai contatti; per i soggetti non a rischio di valutare la frequentazione con eventuali soggetti fragili per non essere diffusori della malattia. La risposta generica banale, ma importante, è quella di continuare ad avere un po’ di attenzione nelle situazioni di assembramento e soprattutto di responsabilità nella gestione della propria eventuale positività».
Per la quarta dose?
«In questo momento la quarta dose è importante per i fragili, perché, anche se il vaccino non è aggiornatissimo, quello che ci interessa è attivare le cellule T della memoria, che, grazie a questa esposizione, rendono più facile l’innesco della risposta immunitaria nel prossimo futuro».
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