Fu verso la fine degli Anni 50 del secolo scorso, quando, adolescente, potei assistere a un cambiamento epocale tra i contadini del Piemonte. Fino a quel momento i miei nonni materni vivevano in una cascina priva di corrente elettrica. Quando calava la sera, forniti di un lume a petrolio, si recavano al piano di sopra: spento il lume, il buio invadeva le loro camere fino all’alba. Vivemmo come una grande, rivoluzionaria e benefica conquista l’allacciamento della cascina dei nonni alla “luce” portata dalla rete nazionale.
A partire dal 1976 vissi una situazione analoga in alcuni villaggi di coltivatori del Nord Kivu, in quello che allora si chiamava Zaire (ora Repubblica Democratica del Congo). Anche qui non c’era corrente elettrica: il fuoco – sempre alimentato e custodito, donato ai vicini, qualora l’avessero lasciato spegnere – era la fonte maggiore di energia, e di notte con tizzoni accesi ci si muoveva nel buio, specialmente in assenza di Luna. Poi, un missionario italiano, che aveva interpretato la sua missione in modo misto (religione, Vangelo certamente, ma anche sviluppo e progresso), si ingegnò a incanalare una cascatella e con l’inserimento di una turbina, fatta venire in dono dall’Italia, portò la corrente elettrica. La popolazione partecipava direttamente ai lavori e così fu possibile installare una macina elettrica (una sorta di piccolo mulino) e, nel contempo, avviare la costruzione di una “maternità”, un edificio in muratura in cui era possibile assistere le partorienti anche di notte.
Il missionario Giovanni fu un eroe del “maendeleo” (sviluppo) locale, mentre al contrario un antropologo che si aggirava da quelle parti si intestardiva a scovare usi, costumi, idee di un tempo, prima che scomparissero del tutto. Giovanni fu fautore di molte altre innovazioni tecnologiche, specialmente da quando con l’elettricità fu possibile impiegare computer e mezzi informatici. Nel frattempo, arrivarono i telefoni mobili: un balzo velocissimo nella modernità e da diversi anni, ormai, con gli smartphone non c’è problema alcuno a conversare con amici che vivono nei villaggi del Nord Kivu e – per venire a oggi – avere notizie in tempo reale dell’avanzare di gruppi di ribelli che intendono mettere le mani sulle risorse minerarie di questa regione.
Tutto questo per dire che, quando si seppe anche da noi (la notizia era apparsa i primi di giugno 2024 sul “New York Times”) che persino i Marubo, un minuscolo gruppo di nativi dell’Amazzonia, lungo il corso del fiume Ituì, erano ormai collegati a Internet grazie all’installazione di alcune antenne Starlink di SpaceX (l’azienda aerospaziale di Elon Musk), chi scrive era già alquanto preparato a questo tipo di eventi. Per i Marubo l’arrivo degli smartphone è stata un’innovazione che ha del miracoloso: si pensi alla possibilità di vedere su un piccolo schermo e di interloquire direttamente con persone distanti da loro, in qualche altro villaggio della foresta; si pensi all’aiuto che gli smartphone forniscono in casi, per esempio, di emergenza sanitaria. Una vera e propria rivoluzione – oltre tutto pressoché subitanea – nel campo delle comunicazioni: un balzo, anche questo, nella modernità più spinta e attuale.
Ovviamente – come c’era da aspettarsi – hanno cominciato a verificarsi diversi cambiamenti nel tessuto dei costumi, delle credenze e dei comportamenti tradizionali. Un’anziana, intervistata da alcuni giornalisti che si erano recati tra i Marubo, si lamentava soprattutto dei giovani, divenuti “pigri a causa di Internet”: anziché seguire i modelli tradizionali, essi ormai “stanno imparando i modi dei bianchi”. Ciò che, comunque, ha colpito nelle parole dell’anziana è il “però” della sua ultima frase: l’uso degli smartphone ha certamente provocato la perdita o la messa in crisi dei costumi tradizionali, e tuttavia, “per favore” – ha aggiunto la donna – “non portateci via Internet”.
La notizia dei Marubo collegati a Internet (con qualche sensazionalismo forse di troppo, come la dipendenza dalla pornografia dei loro giovani) è durata qualche giorno: il mondo è talmente soverchiato da eventi drammatici e informazioni angosciose da ricollocare i Marubo nel loro angolo di foresta, destinati a essere dimenticati dalla maggior parte di noi. Prima che questo avvenga del tutto, prima di dire loro addio, a chi scrive piace ricordare l’addio al loro mondo pronunciato da Claude Lévi-Strauss in “Tristi Tropici” nel 1955: “Povera selvaggina presa al laccio della civiltà meccanizzata, indigeni della foresta amazzonica, tenere e impotenti vittime, posso rassegnarmi a capire il destino che vi distrugge” (1965: 39). L’addio di Lévi-Strauss era intriso di fatalismo e di un senso di impotenza. Al che si poteva obiettare – come aveva fatto chi scrive nella sua monografia sull’antropologo francese (Remotti 1971) – una mancanza di fiducia nella storia, nella “creatività” che in queste come in altre parti del mondo i gruppi umani sono in grado di manifestare (Favole 2010): l’implorazione dell’anziana a cui abbiamo fatto riferimento – “per favore, non portateci via Internet” – potrebbe essere intesa in questo senso, ossia come un atto di fiducia nelle trasformazioni migliorative di cui il proprio gruppo o gli umani in generale sono capaci.
Sinceramente, chi scrive non sa decidersi tra fatalismo e scappatoie: dopo avere criticato da giovane Lévi-Strauss, oggi è costretto a chiedersi se il futuro che l’antropologo francese paventava, come per esempio l’immiserimento e l’appiattimento culturale – la “monocultura” a livello globale, di cui Internet (ma non solo) è manifestazione e fattore – sia davvero un destino irreparabile. Vista l’indecisione, forse è meglio terminare con un’idea, più circoscritta e fertile, che proviene dalla frase di Lévi-Strauss citata prima: quella dei “lacci”. Potremmo chiederci, infatti, se i lacci non siano soltanto quelli con cui la “civiltà meccanizzata” svilisce gli indigeni dei vari angoli di mondo, ma siano pure quelli con cui la civiltà del progresso finisce per imbrigliare sé stessa. Lévi-Strauss aveva ben chiara in mente la differenza tra società che coscientemente (si badi: non per ignoranza!) rifiutano il progresso, privilegiando l’ordine sociale, così come l’equilibrio e la convivenza con l’ambiente naturale, e società che, invece, con il progresso scientifico e tecnologico, spezzano di continuo il loro orizzonte culturale, aprendo varchi verso il futuro.
Lévi-Strauss non è mai stato un oscurantista o un anti-scientista. Ma ha colto bene quelli che si possono chiamare i prezzi del progresso: ai vantaggi spesso incontestabili del progresso corrispondono quasi sempre effetti indesiderati o imprevisti. Per esempio, di recente Gianfranco Pacchioni si è domandato se saremo mai in grado di tenere sotto controllo le più recenti tecnologie (dall’ingegneria genetica all’Intelligenza Artificiale), le quali consentono “ai sapiens di superare sé stessi, di infrangere barriere mai scavalcate da alcun essere vivente sulla Terra” (2019: 196). A loro volta Simon L. Lewis e Mark A. Maslin (2019) hanno notato che ogni progresso predispone delle “trappole” e quanto più il progresso è grande, smisurato, tanto più diviene difficile, se non impossibile, saltare fuori dalle sue trappole. Che cos’è, infatti, l’Antropocene, questa “megaciviltà globalmente connessa” (2019: xix), dispensatrice di opportunità e vantaggi mai visti prima e, nel contempo, divoratrice spasmodica e incessante di energia, se non un’enorme trappola generalizzata, in cui sarebbero finiti da ultimo anche i Marubo dell’Amazzonia?
Siamo ormai tutti “presi al laccio” della civiltà del progresso. A ogni nuova conquista si aggiunge un ulteriore laccio che ci impedisce di scendere dal carro del progresso, lanciato a folle corsa un po’ in tutte le parti del mondo. Chi tra gli umani avrebbe mai non solo la voglia, ma anche l’autorità e il potere, di arrestarne la corsa e dire “basta, è sufficiente così, provvediamo piuttosto a ridistribuirlo più equamente”? Chi mai avrebbe la temerarietà di retrocedere, letteralmente di regredire (come alcune società hanno davvero fatto), ben al di là, dunque, della “decrescita serena” di Serge Latouche (2008)?
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