domenica 9 marzo 2025

LETTERATURA E SOCIETA'. I DEMONI. RASKINA R., Dostoevskij profeta armato di Vangeli, IL MANIFESTO ALIAS, 9.02.2025

 Che il nuovo romanzo al quale stava lavorando, nei primi mesi del 1870, fosse concepito come un’opera deliberatamente tendenziosa, animata da un feroce giudizio morale sul nascente movimento rivoluzionario in Russia, Dostoevskij lo dichiarò senza troppi giri di parole ai suoi corrispondenti: «venisse pure fuori un pamphlet, poco male – almeno mi sfogo». Da tempo gli premeva dire quel che pensava contro gli inconcludenti liberali della sua generazione, quei «padri» occidentalisti i quali, avendo reciso ogni legame con il sacrosanto «suolo» nazionale, avevano di fatto favorito l’affacciarsi sulla scena politica russa dei «figli» nichilisti, quei rivoluzionari privi di scrupoli che ora minacciavano di sovvertire l’ordine costituito della madre Russia. Da questo troncone originario del libello politico, in seguito radicalmente modificato (sebbene non cancellato) da un massiccio innesto di poesia, nacque il romanzo I demòni (Besy), uscito a puntate tra il 1871 e il 1872 e poi, un anno dopo, in forma di libro.




Alle traduzioni finora disponibili, se ne aggiunge una nuova, a firma di Emanuela Guercetti (Einaudi, pp. 752, € 28,00), condotta con rigorosa adesione alla lettera e allo spirito dell’originale, puntando a restituire la polifonia (e, talvolta, una voluta cacofonia) stilistica del romanzo. Una Babele di discorsi concitati, balbettanti, a volte prolissi, a volte ellittici, tenuti insieme quasi a fatica dalla voce narrante del cronista anonimo, che descrive, con un certo umorismo caustico, «i fatti tanto strani accaduti di recente nella nostra città».

Come capita non di rado ai traduttori dei grandi classici, anche Guercetti ha dovuto necessariamente confrontarsi non solo con l’originale russo, ma anche con la precedente traduzione einaudiana di Alfredo Polledro, diventata canonica in ottant’anni e passa della sua circolazione. Pur essendo la nuova versione di indiscutibile pregio, corredata peraltro di un essenziale e indispensabile apparato di note, tuttavia non è tale da mandare in soffitta quella storica di Polledro. Piuttosto le si affianca.

Guercetti rompe con il consueto pronome «voi» delle tante traduzioni dei romanzi russi nate durante il ventennio, e lo volge al «lei», più conforme all’italiano standard contemporaneo e più naturale per il giovane lettore di oggi. Eppure, quel «voi» della vecchia traduzione, forse in virtù del suo sapore ottocentesco, è congeniale alla lingua, a sua volta invecchiata, dello scrittore.

La scelta dell’altissima fedeltà all’originale, inoltre,  risulta forse meno efficace quando si tratta di rendere le poesie del capitano Lebjadkin, croce e delizia di ogni traduttore dei Demòni. Questo straordinario personaggio, una specie di Falstaff dostoevskiano, che compone versetti sconnessi e comici, è considerato il capostipite della corrente poetica «assurdista» russa, rappresentata soprattutto dai componimenti di Olejnikov e Zabolotskij, esponenti di Oberiu, ultimo barlume dell’avanguardia sovietica. Ancora nel 1975 Shostakovich mise in musica le quattro poesie del capitano Lebjadkin. «C’era un nero scarafaggio/ che da sempre era così», recita l’incipit del celebre componimento intitolato al suo protagonista che, nella versione di Guercetti diventa «blatta», ed è questo infatti il corrispettivo esatto di tarakan, il nome dell’insetto; ma l’effetto comico era reso meglio dal  buon vecchio «scarafaggio».

L’impulso a cominciare il romanzo fu dato a Dostoevskij da un fatto di cronaca giudiziaria. Mentre si trovava con la giovane moglie a Dresda – siamo negli anni in cui la coppia ripara in Europa onde evitare la prigione per debiti, e conduce una esistenza nomade, segnata da implacabile miseria, dal demone della roulette e, tra l’altro, dalla nascita dei figli – sui giornali russi imperversava «l’affare Necaev», caso giudiziario che sfociò in un processo politico. Il ritrovamento, nel novembre 1869, nei giardini dell’Accademia agraria di Mosca del corpo dello studente Ivanov portò alla luce l’esistenza di una organizzazione clandestina guidata da Sergej Necaev – figura carismatica e controversa, uno dei primi rivoluzionari di professione nella Russia zarista: sarebbe stato lui il mandante dell’omicidio dello studente.

Dostoevskij profetizza l’apocalisse. Le idee socialiste, venute dall’Occidente, una volta penetrate nelle menti non imbrigliate e fanatiche dei giovani nichilisti russi, si sarebbero impossessate di loro al punto di trasformarli in un branco di invasati, posseduti da demòni: è a questo contagio del Male che alludono sia titolo del romanzo che l’epigrafe tratta dal Vangelo di Luca (VIII, 32-37).

Il travagliato cammino intellettuale di Dostoevskij lo porta a rinnegare la propria giovanile fede socialista e a convertirsi alla parola dei Vangeli, ispirandogli l’idea che, in un mondo abbandonato da Dio, la Russia con le sue istituzioni premoderne e il suo popolo sofferente, «portatore di Cristo», potrebbero rappresentare una sorta di katechon, una forza che trattiene il male e allontana la fine dei tempi.

A detta di Leone Ginzburg, in quegli anni Dostoevskij «sembrava non trovare mai parole abbastanza forti per svalutare e rimpicciolire, con la foga dell’autodenigrazione propria di suoi certi personaggi, le opinioni che aveva professato un tempo e gli uomini che gliele avevano ispirate».

Romanzo notturno, ad altissima carica simbolica, I demoni è ambientato in un capoluogo della provincia russa dove un abile burattinaio, il più cinico dei nichilisti, Petr Stepanovich Verchovenskij, guida una vasta cospirazione sovversiva, denunciata dall’autore come una devastante campagna di odio, che in ultima analisi trama contro il Cristo russo.  In questa impresa il fine giustifica ogni mezzo, e così il machiavellico Petr Stepanovich, precursore del terrorismo politico, la cui morale si ispira direttamente a quella professata da Sergej Necaev nel Catechismo del rivoluzionario, non indietreggia davanti a nulla, foss’anche l’assassinio di un compagno. Dalla folla degli invasati si stagliano alcune figure indimenticabili come Kirìllov, l’ateo che vuol farsi Dio e si suicida per provare la sua libertà; o Shatov che da ex-socialista, andato in America a studiare la condizione degli operai, si è fatto portavoce della Russia e del suo popolo eletto, venendo poi assassinato quando è a un passo dalla conversione religiosa.

Sappiamo che Dostoevskij distrusse una prima versione del romanzo incominciato e dovette ripartire da capo. Lo schema lineare, quasi a tesi, non passava il vaglio delle sue necessità artistiche. Dal progetto mai realizzato della Vita di un Grande Peccatore, Dostoevskij prelevò allora la figura luciferina dell’ideologo del Male, Nikolaj Stavrogin, e finalmente il romanzo gli sembrò acquisire spessore e profondità. Personaggio dal fascino demoniaco (tutte le giovani donne che abitano quelle pagine sono vittime del suo irresistibile ascendente erotico) ha conosciuto ogni girone infernale: l’estrema bestemmia e l’abisso del libertinaggio (il famoso capitolo «Da Tichon», in cui Stavrogin confessa lo stupro di una bambina, fu proibito dalla censura e pubblicato soltanto postumo, nel 1922). Ma la sua rivolta è ambivalente: giovane, bellissimo e desolato, egli è un demone che cerca disperatamente dio. Una volta persa la fiducia nella costruzione di una società giusta, e senza aver trovato la fede, per lui la retta via non potrà essere che il suicidio.

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