Ciò che sta accadendo a Roma, in questi giorni, al liceo Virgilio, non riguardasemplicemente il consumo di hashish tra gli adolescenti, ma è in realtà una disputa sulla scuola pubblica e sul suo destino. Se cioè questa scuola debba rassegnarsi a sprofondare nella più totale disorganizzazione o se invece essa sia autorizzata a riaffermare il proprio diritto a orientare moralmente e intellettualmente i giovani.
A sentire certe madri fa più impressione il carabiniere che arresta lo spacciatore a scuola che lo spacciatore stesso preso a vendere hashish ai ragazzini durante l’ora di ricreazione. È successo, come dicevo, a Roma pochi giorni fa. Ma è sicuro che ogni volta che accade una cosa del genere c’è sempre qualcuno che invoca dialogo e non repressione. A Bologna, ad esempio, ai primi di marzo, liceo Bassi, i carabinieri hanno trovato marijuana in classe. Anche allora l’immancabile «madre dello studente» volle dichiarare ai giornali il suo sconcerto. La presenza della polizia a scuola non mi rassicura, disse al «Corriere di Bologna»: è un «messaggio diseducativo e non propositivo». A Roma è un’altra madre a parlare, questa volta niente meno che dalle pagine nazionali di Repubblica. Intervistata il primo di aprile dichiara che ciò che è accaduto al liceo Virgilio è un «blitz da Far West» e come tale andava evitato. Gli spacciatori vanno fermati, certo; meglio però sarebbe stato convocare il giovane colto in flagrante a un colloquio privato, dice.
Non tutte le scuole sono uguali e con ogni evidenza non lo sono le famiglie che vi mandano i propri figli. In questi mesi episodi analoghi a quello del liceo romano sono accaduti in mezza Italia, da Ferrara a Carate Brianza, da Monza a Ravenna, a Macerata, a Pontedera. Nessuna di queste vicende tuttavia ha assunto il clamore mediatico dei fatti del Virgilio. Gli adolescenti di provincia continuano a rintronarsi di canne nei bagni di sperduti istituti professionali nel disinteresse generale.
La posizione di dominanza delle famiglie di un prestigioso liceo della capitale,prossime alla politica, alla stampa quotidiana, alla televisione, ha fatto sì invece che a Roma la questione smarrisse ben presto i suoi termini reali per trasformarsi in un processo al preside sceriffo, colpevole di voler fare della scuola un bunker. Contro la concezione della scuola come comando di uno solo, collettivi studenteschi e genitori democratici debitamente organizzati in lista invocano la mediazione, il dialogo, la scuola come comunità educante orizzontale, fatta da insegnanti, famiglie, studenti, impegnati in una continua, ininterrotta, ricerca del compromesso.
È facile riconoscere l’inconsistenza di simili richieste. Non solo perché la comunità educante semplicemente non esiste, è una ispirata finzione pedagogica priva di qualsiasi riscontro nella vita reale. Ben più corposamente, nella scuola si muovono ormai da anni interessi particolari, gruppi organizzati, fazioni. E quando la pretesa di questi gruppi di imporre la mediazione tra parti organizzate soverchia l’autorità dell’istituzione questa smette semplicemente di funzionare. Nessuna educazione può essere infatti compiacente. E ogni educazione richiede, per potersi esercitare con una qualche efficacia, l’autorità intatta degli insegnanti. Troppo spesso si dimentica che l’educazione è un fatto eminentemente gerarchico. Ora è evidente che nessuna educazione si esercita se la vita degli studenti si sottrae ai principi elementari della legalità. Ripristinare questa legalità è il requisito minimo perché la scuola possa assolvere al suo compito educativo. Senza questa base di partenza, tutto il resto è inevitabilmente costruito sul nulla.
Ho detto educazione. Se si guarda bene è facile accorgersi che dietro la feroceopposizione al preside del Virgilio e alla sua decisione di chiamare i carabinieri agisce una convinzione più generale che si è largamente diffusa in questi ultimi vent’anni, l’idea cioè che la scuola pubblica, come istituzione laica affidata alle cure dello Stato, non abbia in fondo più niente da fare sul terreno della formazione delle giovani generazioni. Se lo Stato non vuole rinunciare a educare i suoi giovani non può non formare questi giovani sul terreno della disciplina. E la disciplina è sempre duplice, contemporaneamente regola e contenuto. Buona condotta per mezzo di un rigoroso abito della mente ben educata.
È questo allora il vero oggetto della disputa che la vicenda di Roma pone all’opinione pubblica italiana, se la scuola come istituzione nazionale possa ancora formare i suoi studenti o se invece debba rassegnarsi a diventare il teatro, sempre più degradato tra l’altro, di un democraticismo pedagogico inconcludente e avulso dalla realtà del Paese.
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