Uno degli aspetti più sorprendenti del tempo che viviamo è che, nonostante condizioni economiche precarie e scarse prospettive per il futuro, il livello di conflitto sociale continua a essere alquanto limitato. Esiste, è vero, un diffuso malcontento che si incanala nei vari populismi. Ma, al di là di qualche fiammata (come la protesta contro la riforma del lavoro in Francia, Occupy wall street a New York o la «rivolta dei forconi» in Italia), non si ha traccia di un vero conflitto sociale. Al contrario, le cronache sono piene di episodi violenti legati al terrorismo di matrice islamica, al femminicidio, alle stragi di singoli uomini in «preda alla follia».
Ciò che accomuna tutte queste drammatiche vicende è l’azione individuale — o al più di microgruppi — che si sfoga direttamente contro qualche innocente mediante un atto violento. Non ci si associa più in un gruppo o in un movimento; non si abbraccia più una prospettiva di futuro. Come nel quadro di Munch, ciò che rimane è solo un urlo che non riesce a prendere parola ma che passa direttamente all’atto. Nella certezza di finire all’indomani sulle prime pagine dei giornali, raggiungendo così una seppur postuma glorificazione dell’Io.
Siamo di fronte a un fenomeno nuovo che lega insieme l’individualismo radicale e le faglie del cambiamento sociale in atto (l’identità di genere, il passaggio generazionale, il riconoscimento sociale). Nella società a pezzi nella quale viviamo, persino il conflitto si esprime in forma molecolare, episodica e violenta. Senza un senso né una direzione.Un ruolo fondamentale lo gioca la rete, che non solo trasmette in modo anarchico messaggi e immagini estremamente violente, ma soprattutto rende disponibili identificazioni immaginarie per privatissimi disegni criminali.
Come ha mostrato O. Roy, è questo un aspetto molto importante per capire i giovani jihadisti francesi. La loro «carriera fondamentalista» non ha alcun rapporto né con la concretezza di una qualche comunità né con l’insegnamento religioso, ma passa da forme di socializzazione con un ristrettissimo gruppo di «compagni» incontrati in un luogo particolare (quartiere, prigione, società sportiva) con cui si crea un senso di profonda comunanza. Grazie alla rete diviene poi possibile riconoscersi in un «Islam puro» che viene preso come via d’uscita da una situazione insopportabile. Da qui nasce una nuova personalità, in preda al delirio di onnipotenza e alla voglia di rivincita: la volontà di uccidere coincide con la fascinazione per la propria morte, perché se si ha un ragione per morire, allora si ha anche un motivo per vivere. Roy parla di una forma di «nichilismo individualistico» che trova nella interpretazione fantasmagorica della religione offerta dalla rete il canale della propria strutturazione.
Ma non è solo questione del web. Più in profondità, il problema nasce dal fatto che nella società contemporanea pensiamo di poter evitare i conflitti semplicemente aumentando le possibilità di azione individuali. Col risultato che, oltre alla indifferenza, cresce la sfiducia che le cose possano essere risolte un po’ alla volta, discutendo o, quando serve, lottando. Lo psicanalista Pietro Barbetta ha parlato di «società psicotica», facendo riferimento ad una condizione nella quale si ha la perdita della capacità di accettare e gestire gli elementi problematici della realtà. Il conflitto viene rimosso: bisogna far sempre finta che tutto vada bene. Operazione alla lunga insostenibile, che induce meccanismi di difesa spesso problematici (svalutazione, scissione, identificazione proiettiva, diniego, onnipotenza) per proteggere l’individuo dalla disintegrazione. Così, di fronte a un problema che pesa sulla sua vita, lo psicotico, anziché aprire una discussione, si rivolge a un’istanza superiore che, nella sua mente, dovrebbe annientare l’origine della sua sofferenza.
Come l’individuo psicotico, così la società psicotica — sottomessa e impotente — accumula frustrazione e nel contempo la nega. Esponendosi così alle forme tragiche della sua manifestazione. In tale interpretazione, la violenza molecolare e la domanda dell’”uomo forte” fanno parte della stessa sindrome. Tutto ciò porta a interrogarci sulla natura della cosiddetta «società della comunicazione»: come in un bazar, tutti gridano: il rumore di fondo è altissimo, nessuno riesce più a parlare con qualcun altro. Neppure col proprio vicino. Così, nell’impossibilità di articolare non dico un dialogo, ma almeno un conflitto aperto e leale, per molti non rimane che la violenza. Come urlo disperato, per farsi ascoltare.
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