sabato 8 ottobre 2011

NEGRI T., RECENSIONE a LA COMUNITA' CHE VIENE, di G. AGAMBEN

in IL MANIFESTO, 26 LUGLIO 2003

Pur essendo un abituale lettore di Giorgio Agamben, mi è capitato di recensire solo un altro suo libro, Il linguaggio e la morte del 1982. Era una vera e propria introduzione alla filosofia e proponeva un metodo di analisi divenuto, negli anni successivi, a lui caratteristico: costruire criticamente sul terreno dell'essere, scavando sul margine esistenziale e linguistico, la via della redenzione. Una redenzione del tutto immanente che mai dimentica la condizione mortale. Lavorare in filosofia avrebbe dunque significato traversare l'essere con impegno etico, eliminando ogni residuo dialettico (allora tanto diffuso fra gli epigoni dell'idealismo ed il tramontante socialismo) e produrre di conseguenza conoscenza vera, politicamente orientata, eticamente qualificata, nel senso di una possibile umana redenzione.





A prima vista sembrava che Agamben si muovesse come Derrida e Nancy, sfogliando un punto dell'essere desideroso dell'altro, sempre illusorio tuttavia. Non era così. Agamben quanto più approfondiva la sua analisi fenomenologica dell'essere, tanto più lavorava il possibile, un nuovo orizzonte, insomma, come talora Blanchot, traversava il mondo linguistico in termini di ontologia critica. E' in questo modo che Agamben si avvicina (ed avvicina la descrizione della realtà che descrive) al General Intellect, cioè ad un'idea positiva dell'essere linguistico del comune, traversato da lotte, processi di sfruttamento e sussulti di liberazione.
Ma come si fa a strutturare il mondo che questo approccio ontologico costituisce? Come fa qualcuno che, come Agamben, ha sempre tenuto la morte presente nella descrizione fenomenologica a costruire positivamente l'idea della redenzione? Attorno a questo progetto, il cammino teorico di Agamben ha presentato strappi sempre più evidenti. E' forse né La comunità che viene del 1990, che lo strappo è più forte, quando l'esperienza della redenzione si presenta come disutopia. Essa esigeva che l'orlo della morte fosse attraversato dalla tensione della vita, e che nel metodo fosse interiorizzata la massima spinozista: «L'uomo saggio non pensa la morte bensì alla vita». L'idea del biopolitico cominciava dunque qui a presentarsi come potenza centrale, inquieta certo, forse alternativa, comunque strutturalmente innovativa nel pensiero di Agamben. Di nuovo poi in Homo sacer questa problematica si è presentata in tutta la sua complessità e contraddittorietà.

Ci sono infatti due Agamben. C'è quello che si intrattiene su uno sfondo esistenziale, destinale e terrifico, e qui è costretto ad un confronto continuo con l'idea della morte; ce n'è un altro che attraverso l'immersione nel lavoro filologico e nell'analisi linguistica, conquista (mette pezzi, manovra, costruisce) l'orizzonte biopolitico: qui, in questa situazione, Agamben sembra talvolta un Warburg dell'ontologia critica. Paradossale tuttavia è il fatto che i due Agamben convivono sempre e, quando meno te lo aspetti, il primo riemerge ed oscura il secondo, e l'ombra della morte si distende lugubre contro la voglia di vivere, contro l'eccedenza del desiderio. O il contrario.

In Stato di eccezione ( Bollati Boringhieri, pp.120, € 12) noi abbiamo la possibilità di leggere insieme questi due Agamben. Innanzitutto, infatti, Agamben riconosce e denuncia il fatto che lo stato di eccezione (uno stato di morte) coinvolge ormai ogni struttura di potere e svuota in maniera radicale ogni esperienza e definizione di democrazia. E' la condizione imperiale. Ecco aprirsi una prima linea di lettura: questa definizione di stato di eccezione si instaura infatti sull'orizzonte di un'ontologia indifferenziata, cinica o pessimistica, dove ogni elemento è riassunto nel vuoto gioco di una negatività eguale. Lo stato di eccezione appare qui come sfondo indifferente che neutralizza e scolora tutti gli orizzonti e li riconduce ad un'ontologia incapace di produrre senso se non in termini distruttivi. Quest'essere è del tutto improduttivo. Quest'essere si confonde con il diritto (o nella sua assenza) laddove solo il diritto sarebbe chiamato a dare senso al reale. Si assiste così ad una sopravvalutazione del diritto e ad una sottovalutazione dell'ontologia: la realtà non produce senso.

A questo punto, è evidente che non c'è differenza tra stato di eccezione e potenza costituente, perché entrambi vivono sullo stesso livello di indistinzione. La definizione del biopolitico, in questo Agamben, si pone come indifferente all'antagonismo: inutile replicare che il diritto di eccezione annulla l'essere, mentre invece la resistenza ed il potere costituente lo creano! No, qui tutto quello che avviene nel bios è piegato all'indistinzione della natura, allo zoe... In effetti, non è qui difficile vedere in azione quella deriva che obbliga ogni concezione unilaterale del bios ad una riduzione naturalista. L'effetto di questo primo squarcio di analisi è paradossale: tutto quello che avviene nel mondo, oggi, è come se si fosse fissato in un orizzonte totalitario e statico, come «sotto il nazismo». Ma le cose non stanno così: se noi viviamo in uno stato di eccezione è perché viviamo una «guerra civile», feroce e permanente, dove il positivo ed il negativo di scontrano: la loro potenza antagonista non si può in nessun caso appiattire nell'indifferenza.

Agamben tuttavia non si ferma qui. Stato di eccezione ci presenta una seconda prospettiva, più originale, più potente: è una linea spinozista e deleuziana. Qui, su questo secondo terreno, l'analisi non sorvola un biopolitico inerte ma lo attraversa con febbrile ansia utopica, ne coglie l'antagonismo interno. L'arma filologica che Agamben utilizza con tanta destrezza, diviene a questo punto, davanti alla complessità che ne è investita, quasi incerta, in ogni caso tatonnante; le scoperte vengon fuori come sorprese, ma sono vere scoperte, innovazioni concettuali e linguistiche. Il postmoderno si mostra qui ontologicamente duro e creativo. Ed ecco che su questo snodo, all'archeologia ed alla filologia, dà continuità la genealogia del biopolitico. Il dispositivo utopico infatti non si contrappone sincronicamente all'orizzonte ontologico ma irrompe, penetra, sfonda diacronicamente istituzioni e sviluppo giuridico. Qui la dialettica è davvero superata perché il biopolitico è decostruito ed attraversato internamente.

Il biopolitico, in Agamben, non è più, a questo punto, riguardato dall'esterno, quasi fosse una realtà indipendente da studiare, da riconoscere - un frutto da cogliere. L'hegelismo è qui definitivamente oltrepassato da una critica che riconosce l'impossibilità dell'omologia dialettica degli opposti. Tanto più lo sarà ogni nostalgia della sinistra hegeliana. Lo stesso Benjamin che pure ha vissuto e posto questa serie di inghippi problematici e di dolorose reminiscenze dialettiche, è qui scavalcato. Agamben, con formidabile gesto, va al di là, concettualmente ed eticamente, dello stato di eccezione attraversandolo: così come il cristianesimo primitivo o il comunismo delle origini hanno attraversato il potere o lo sfruttamento, distruggendoli perché li hanno svuotati. In questo secondo scenario l'analisi di Agamben mostra come l'immanenza possa essere realista e rivoluzionaria.

Questo è un libro fastidioso nel suo sviluppo e nei suoi dualismi, ma straordinario nella sua realizzazione. Chiarisce un punto attorno al quale la filosofia post-strutturalista e postmoderna aveva fin qui girato a vuoto facendo - di contro - dell'orizzonte biopolitico un'esperienza verificabile e percorribile. Un'esperienza copernicana.

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