venerdì 2 marzo 2012

CARCERI ED ISTITUZIONI TOTALI. MANCONI L., La cella del prigioniero bambino, L'UNITA', 5 gennaio 2012

Secondo Mauro Palma, già presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura, il sistema penitenziario ha davanti a sé due prospettive: quella della responsabilizzazione e quella della infantilizzazione. La prima richiama una strategia virtuosa e razionale che può fare del carcere qualcosa di diverso dalla macchina criminale e criminogena che oggi è. La seconda corrisponde alla tendenza dominante, che vuole mantenere il recluso in uno stato di mortificazione della personalità. Aggiungo che quel termine, infantilizzazione, è così pertinente da presentarsi come l’espressione più palpabile della realtà carceraria contemporanea: come la sua più concreta traduzione materiale.


Qualche anno fa, mi capitò di visitare il carcere di una città toscana, ricavato da un antico edificio medievale, destinato in origine ad alloggio per la servitù. Il carcere era stato realizzato su quella struttura e ne riproduceva le misure. Tutto in scala ridotta, ridottissima: la cappella sembrava un confessionale, le celle erano come altrettanti loculi di un pazzoide condominio giapponese, la cucina uguale a quella di Barbie. Si avvertiva la sensazione che tutto ciò non fosse casuale e che quella galera degna di un gioco da tavola (che so? Il Piccolo galeotto), fosse la rappresentazione plastica dell’ideale feroce di chi ha immaginato il sistema penitenziario. E ciò sembra confermare che lo scopo finale del carcere, ma anche la sua pre-condizione, sia la riduzione ai minimi termini dell’identità del recluso. Una riduzione che passa anche attraverso un processo di rimpicciolimento del suo spazio vitale, delle sue possibilità di movimento, del suo campo visivo e del suo campo d’azione.
A tale processo di ri-dimensionamento corrisponde, fatalmente, un meccanismo di infantilizzazione. Se è vero che la prigione come istituzione della privazione delle libertà è, per sua stessa natura, una condizione di minorità e di dipendenza, tutto ne consegue: i reclusi, come i bambini, godono di una libertà limitata e di una parziale capacità di autodeterminazione. I loro stessi gesti quotidiani, nei tempi e nei ritmi, sono regolati da altri e tutta la loro vita sembra ispirata ad una pedagogia coatta.
Simbolo massimo, più rappresentativo e beffardo, di quella condizione è la procedura delle richieste. Sarà un caso, ma qualunque esigenza e qualunque necessità, qualunque contestazione e qualunque diritto, passano attraverso un metodo di interpellanza scritta alla direzione del carcere, che non si chiama domanda, ma domandina. Quel diminutivo vezzeggiativo è davvero eloquente. E questo rende quanto mai importante un ragionamento sul rapporto tra individuo recluso e istituzione della custodia, quale quello affrontato nel libro curato da Stefano Anastasia, Franco Corleone e Luca Zevi (Il corpo e lo spazio della pena, Ediesse 2011).
L’idea di fondo del libro è che tra luoghi, spazi e natura della pena vi sia un legame non aggirabile: la compressione degli spazi e il dimensionamento (sempre più elefantiaco) degli istituti penitenziari cambiano la qualità della pena. Se anche si raggranellassero tutti i fondi necessari a dare seguito all’originario e improbabile piano di edilizia penitenziaria (la realizzazione di ventiduemila posti letto), resterebbe elusa la domanda di fondo: una volta che l’istituto di pena fosse ridotto a mero contenitore di una umanità in eccesso, non ne verrebbe alterata la stessa idea di pena?
Progettazione architettonica e pianificazione urbanistica ci obbligano invece a fare i conti con la qualità della vita offerta a chi deve vivere in quei luoghi, e dunque con l’idea di pena che abbiamo. Sulla copertina del libro in questione è riprodotta l’immagine del giardino degli incontri progettato da Giovanni Michelucci per la casa circondariale di Sollicciano: uno spazio per le visite familiari a due passi dal muro di cinta, ma che vorrebbe essere già fuori, a tenere insieme chi è detenuto e chi ne aspetta il rilascio.
Dunque, se quello del carcere è, essenzialmente, un problema di “anatomia politica dei corpi”, come scrive Eligio Resta, non si può prescindere dalla technè architettonica nell’affrontare il rapporto tra corpi individuali e spazi collettivi. All’esame delle forme storiche e progettuali degli istituti di pena e della loro collocazione urbanistica corrispondono, pertanto, le esigenze di riforma, per una pena rispettosa della Costituzione, nella consapevolezza che il senso della pena non può essere altro che la fine della pena.
Post scriptum. Il rapporto tra infanzia e prigione conosce una sua ulteriore manifestazione nel fatto che, a tutt’oggi, nelle carceri italiane si trovano “reclusi”, insieme alle loro madri, mediamente 50-60 bambini da 0 a 3 anni. Uno scandalo, se possibile ancora più atroce, nello scandalo.

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