Viaggio dentro l'inferno delle carceri italiane
I circa 70mila detenuti compressi in spazi previsti per 45mila. «Ci trattano come maiali, non siamo nemmeno più numeri - protesta un detenuto a Rebibbia -. Ci cuciniamo nel posto dove facciamo anche i bisogni. Di quale riabilitazione parlano?». - di Antonio Crispino
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I dati sono quelli del progetto Space (Statistiques Penales Annuelles) creato dal Consiglio d'Europa. Nemmeno 28 provvedimenti di amnistia/indulto (fonte: www.ristretti.it) approvati dalla nascita della Repubblica hanno cambiato granché il quadro generale.
IL DRAMMA - Ma le statistiche non raccontano bene il dramma delle carceri e al di là dei numeri spesso si trova solo omertà, disinteresse o luoghi comuni. Entriamo da giornalisti nei vari istituti detentivi italiani ma la realtà che possiamo riprendere è solo quella che ci indicano i dirigenti. C'è addirittura chi raccomanda «il solito giro per i giornalisti» o comunica alle direzioni di «verificare i contenuti del materiale prodotto... prima dell'autorizzazione alla pubblicazione del servizio». Anche i detenuti con cui parlare non li scegliamo noi ma ce li indicano dalle direzioni. Sarà un caso, ma sono tutte persone che lavorano e non hanno problemi. Ma di detenuti come quelli che ci propongono (definiti "articolo 21"), nel carcere "Gazzi" di Messina, da dove parte il nostro viaggio, ne sono tre su circa quattrocento.
Basta voltarsi dall'altra parte per scoprire una realtà tutta diversa. In una cella originariamente adibita al transito, ci sono otto detenuti. Scendono dai letti solo in quattro perché tutti in piedi non ci starebbero, fanno a turno. Hanno la tazza del water accanto al tavolino dove mangiano. Non c'è un muro divisorio o un paravento. I bisogni si fanno "a vista", davanti a tutti. Ci sono quattro livelli di brande, l'ultima arriva proprio fin sotto il soffitto. Non c'è una scala per salire (in carcere è vietata). Chi capita ai piani alti deve arrampicarsi sugli altri. Ci dicono di andare avanti. Intravediamo una persona che trema su una carrozzina, a stento riesce a parlare. Siamo in quello che dovrebbe essere il centro clinico. Riesce a malapena a dire che soffre di «atassia cerebellare». E' una degenerazione del sistema nervoso che fa perdere la coordinazione dei movimenti. Se non curata bene porta progressivamente alla paralisi. Appena voltiamo l'angolo una guardia ci suggerisce di lasciar perdere. «Ha sulle spalle due o tre omicidi» sghignazza.
SOVRAFFOLLAMENTO - Mentre passiamo per i corridoi, riscaldati con alcune stuffette alogene, alcuni detenuti implorano attenzione. In cella ne sono 11. Sono operati di cuore, diabetici, malati epatici, etc. Ci indicano un vecchio di 82 anni steso in branda. Lo chiamano ripetutamente ma non si muove. Due minuti dopo la nostra visita, dalla direzione ci fanno sapere di aver trasferito l'anziano in un luogo più idoneo. Ci invitano ad andare avanti anche qui. La preoccupazione è quella di tutelare la privacy, importante almeno quanto gli altri diritti umani riconosciuti dall'Onu. Ci sono malati di tubercolosi. Chi ci accompagna cerca di minimizzare mentre il medico incaricato del carcere ci dice che negli ultimi tempi c'è stata «una recrudescenza di alcune malattie infettive proprio come la tubercolosi e la difterite». In altri carceri troveremo anche casi di scabbia. Lui, come gli altri, è un medico incaricato provvisorio. Presta servizio tre ore al giorno. «Non abbiamo i mezzi per poter dare risposte in tempi ragionevoli». Significa che i detenuti devono «arrangiarsi». Lo fanno con i tranquillanti. Li prendono soprattutto per dormire perché dopo 24 ore fermi nello stesso posto si fa fatica a chiudere gli occhi.
«CI TRATTANO COME MAIALI» - Nel carcere di Rebibbia andiamo al nuovo complesso, considerata una delle realtà detentive più dignitose. Da dietro le sbarre ci gridano di andare a vedere, sono tredici ristretti in quello che era una sala ricreativa. La guardia cerca di nascondere. «Questa non è una cella, è una saletta per il ping pong» dice mentre con una mano oscura la telecamera. Si rischia la rivolta. Il primo a ribellarsi è quello che porta il rancio nelle celle: «Non potete nascondere sempre, fatelo entrare e fate vedere qual è la realtà». Non riusciremo a vedere cosa c'è in quella cella. «Ci trattano come maiali, non siamo nemmeno più numeri - protesta un detenuto qualche cella più avanti -. Ci cuciniamo nel posto dove facciamo anche i bisogni. Di quale riabilitazione parlano?». Vorremmo far vedere le immagini che giriamo al Garante per i diritti dei detenuti. Scopriamo che in Sicilia, ad esempio, questa figura è stata soppressa per una storia di sprechi. Su 176 mila euro stanziati per le attività di assistenza a chi è in cella, il solo garante percepiva uno stipendio di 100 mila euro.
(-Continua)
1 marzo 2012 (modifica il 2 marzo 2012)
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