Nel villaggio di Nanjiecun, provincia dello Henan, tutto è rimasto fermo all’epoca del Grande Timoniere Mao Zedong.
In un’epoca di profonde riforme e grandi incertezze, mentre la Cina intera sta facendo passi da gigante nell’affrancarsi dall’ingombrante eredità del maoismo, alcune piccole comunità locali continuano a guardare al passato alla ricerca di qualche punto di riferimento per orientarsi nel caos del presente. Nanjiecun, un villaggio sperduto nelle campagne della provincia settentrionale dello Henan, è una di queste realtà sospese nel tempo, un mondo in cui ancora oggi la vita dei residenti ruota intorno ad una grande statua di Mao che nella piazza centrale del paese alza il braccio destro, quasi a benedire i passanti, sotto lo sguardo tacito e compiacente dei ritratti di Marx, Engels, Lenin e Stalin, posti in un circolo ideale alle spalle del Grande Timoniere. Due miliziani, ragazzini dall’aria ben poco marziale, fanno la guardia giorno e notte ai piedi del simulacro di colui che, come un’iscrizione sul piedistallo ricorda, “era un uomo e non un dio, ma attraverso il suo pensiero ha sconfitto gli dei”.
Mao è una presenza palpabile nella vita degli abitanti di Nanjiecun: poco più di tremila residenti locali e oltre ottomila lavoratori migranti, provenienti per lo più dai villaggi dei dintorni. Ogni giorno essi si svegliano all’alba, accompagnati dalle note dell’inno maoista “L’Oriente è rosso”, trasmesso a tutto volume dagli altoparlanti installati a ogni angolo di strada. Quando il coro rivoluzionario intona il verso “il sole è sorto, in Cina è nato un Mao Zedong…”, le strade del villaggio, prima silenziose, si riempiono di vita. Soprattutto di giovani in motorino che vanno a lavorare nelle oltre venti fabbriche locali di proprietà collettiva. La cerimonia si ripete, assolutamente identica eccetto che per il differente sfondo musicale, alle 11.30 e alle 17.30, segnando così la pausa pranzo e la fine del turno pomeridiano in fabbrica.
Esattamente come nella Cina di trent’anni fa, al di fuori del lavoro a Nanjiecun la vita scorre monotona: non solo non esistono pub, karaoke, sale da massaggio – divertimenti considerati moralmente dannosi per la salute spirituale delle masse – ma anche i ristoranti si contano sulla punta delle dita. Con il buio le strade, tanto pulite da risultare asettiche, si svuotano e ai giovani del posto non rimane che ciondolare per i parchi in piccoli gruppi oppure concedersi qualche partita a ping pong nella locale sala da gioco. “Certamente a volte noi giovani sentiamo il bisogno di andarcene dal villaggio per divertirci in altri modi”, racconta Wang Yanming, un giornalista ventiseienne della radio locale. Per chi desiderasse qualcosa di più, è sufficiente prendere una bicicletta e fare qualche centinaio di metri per uscire dai confini della cittadina e immergersi nella realtà comune a tanta parte della Cina rurale contemporanea. Un mondo fatto di rifiuti gettati con noncuranza sul terreno, piccoli ristoranti in cui si può mangiare con pochi soldi, banchetti improvvisati per la strada, sale da ballo, karaoke e bordelli.
Perché questo è il paradosso di Nanjiecun, un’isola maoista nel mare della Cina capitalista. Nei primi anni Ottanta le riforme in questo villaggio, allora un semplice paesino povero come tanti altri nella pianura dello Henan, erano state applicate senza troppi problemi: la terra era stata ridistribuita alle famiglie contadine perché la coltivassero individualmente e godessero dei frutti del loro lavoro e piccole imprese individuali cominciavano ad aprire per iniziativa degli abitanti. Poi, qualcosa è andato storto e la leadership locale ha deciso di fare marcia indietro. Dal 1984 le imprese sono state nuovamente collettivizzate e tra il 1986 e il 1990 tutti i terreni sono tornati sotto il controllo della collettività. Questo cambiamento può essere ricondotto all’influenza di Wang Hongbin, figura carismatica che da oltre trent’anni ricopre la carica di segretario di Partito del villaggio. È stato lui infatti che all’epoca convinse i compaesani a stabilire le prime imprese collettive, esaltando i vantaggi del modello di vita comunitario proprio nella congiuntura storica in cui il resto della nazione si accingeva a percorrere una via differente.
“I villaggi dei dintorni sono ancora così arretrati perché hanno un sistema sociale basato sulla famiglia, noi invece ci siamo resi conto della superiorità del modello collettivo: questo è il segreto del nostro successo”, spiega un insegnante della scuola superiore locale. Dalla seconda metà degli anni Ottanta, gli abitanti di Nanjiecun hanno avviato la gestione collettiva di una serie di fabbriche, la più famosa delle quali rimane quella che produce i fangbianmian: gli spaghetti istantanei venduti in tutta la Cina, pranzo quotidiano di milioni di persone. I proventi delle imprese, sopravvissute ad un decennio di perdite grazie ai generosi finanziamenti delle banche statali, hanno sovvenzionato il welfare della popolazione locale. Gli abitanti del villaggio percepiscono salari bassissimi (al massimo 250 yuan al mese, trenta euro circa), ma godono di benefici previdenziali che susciterebbero invidia nella più generosa socialdemocrazia occidentale. Dalla culla alla tomba, tutte le loro spese sono coperte: istruzione (fino all’università), cure mediche (negli ospedali di tutta la regione), alloggi, luce, gas, acqua e persino la cremazione. Di fatto le spese per mantenere questa imponente macchina sono enormi: soltanto nell’ultimo anno l’amministrazione locale ha speso oltre quindici milioni di yuan per garantire il benessere dei propri cittadini.
“In passato la maggior parte delle case erano di paglia, le migliori erano di coccio: avevamo sempre freddo”, ricorda Liu Gailian, una signora di 76 anni che ha passato tutta la vita nel villaggio. Nel 1993 i vecchi edifici trasandati di un solo piano in cui vivevano gli abitanti di Nanjiecun sono stati abbattuti e i loro ex-abitanti trasferiti in moderni condomini costruiti appositamente per ospitare l’intera comunità della popolazione indigena: un passo in più verso la collettivizzazione di questa micro-società. Eppure soltanto gli abitanti del villaggio hanno ottenuto il permesso di trasferirsi nelle nuove residenze, così come solamente loro in genere sono titolati a godere di tutti i benefici del welfare. E i lavoratori immigrati impiegati nelle locali industrie collettive? Ricevono salari più alti (intorno agli ottocento yuan al mese) e vitto e alloggio gratuiti, ma non possono usufruire delle stesse agevolazioni dei loro omologhi locali. Stando a quanto riportato da alcuni media nazionali, nel 2004 queste ineguaglianze, esasperate in un momento in cui le finanze del villaggio erano profondamente in crisi, avrebbero scatenato un’ondata di scioperi. Questo fatto però non è confermato da Qu Yuhong, un quadro del sindacato locale, che commenta: “Le nostre imprese sono armoniose: allora si è trattato solamente di un malinteso con i media e con la società”.
Il successo dell’esperimento di Nanjiecun inevitabilmente ha finito per suscitare l’invidia di molte persone. “Gli abitanti di Nanjiecun se la passano troppo bene!” esclama seccato un signore di mezza età che vive ad un paio di chilometri dal villaggio. Tra gli abitanti dei dintorni, realtà rurali tuttora immerse nella povertà e nel degrado, serpeggia il malcontento: se la fama del “villaggio maoista” ha aiutato enormemente a sviluppare l’industria turistica dell’intera zona (le statistiche ufficiali vogliono che ogni anno dai trecento ai quattrocentomila turisti transitino per l’area), sono in molti a ritenere ingiusto il trattamento di favore che Nanjiecun ha sempre ricevuto dalle banche e dai governi provinciale e centrale. Anche se da qualche anno a questa parte l’era dei prestiti facili si è conclusa in seguito a un cambiamento di politica del centro in merito al credito rurale, questo esperimento di ingegneria sociale continua ad esistere.
Interrogato su quale sia la prossima tappa che si propone di raggiungere nel processo di creazione di una vera e propria “comunità comunista” basata sui precetti di Mao, Wang Hongbin ha risposto: “Entro tre anni stabiliremo una mensa comune in cui tutti potranno mangiare gratuitamente a piacimento, entro dieci anni tutti gli oggetti quotidiani saranno disponibili senza spesa in apposite stazioni di rifornimento: questo sarà il passo finale verso l’instaurazione del comunismo reale. Allora le masse saranno ricche al punto da non aver bisogno di mettere da parte un solo yuan”. La stessa affermazione che compariva in un articolo pubblicato su una rivista cinese quattro anni fa. Da allora, nulla è cambiato: forse se ne riparlerà tra un’altra decina di anni.
(questo articolo è uscito anche su D di Repubblica n.655 del 18 luglio 2009)
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