Il carcere è una pena relativamente giovane. E’ una invenzione della modernità che ha sottratto la giustizia all’arbitrio del sovrano e ha chiuso l’era dei supplizi e delle pene corporali. La pena carceraria, regolata nello svolgimento e temporalmente determinata, ha segnato il passaggio verso lo Stato costituzionale di diritto.
Nessuno poteva più finire in cella per un capriccio del re di turno, nessuno avrebbe più potuto essere sottoposto a pene inumane o degradanti. L’articolo 27 della Costituzione fu l’esito della elaborazione di Costituenti che avevano subito le vessazioni, le violenze, le umiliazioni del carcere fascista. Alla pena carceraria è assegnata una funzione di reintegrazione sociale. Al contempo vengono messe fuori legge la tortura (non in Italia) e ogni forma di maltrattamento. Oggi la quotidianità penitenziaria ci rimanda indietro all’epoca dei supplizi. In galera ci si finisce per i capricci xenofobi e proibizionisti di alcune forze politiche e quando ci si va a finire si entra nel regno della illegalità, tra malattie, sporcizia, violenze, suicidi, diritti negati.
Quello carcerario è il luogo simbolo di una società che ha abdicato alla giustizia e ha deciso di tornare al medioevo. Si dovrebbe tornare invece alla materia e allo spirito della Costituzione. Per fare questo ci vogliono riforme coraggiose che da un lato riducano il sovraffollamento e dall’altro tolgano il respiro a chi usa violenza. Va fatto qualcosa subito. Già trentadue sono stati i suicidi di detenuti dall’inizio dell’anno. Ogni cinque o sei giorni se ne ammazza uno. Scelte personali e indifferenza pubblica si confondono in un mix tragico.
I custodi hanno l’obbligo morale e giuridico di proteggere la vita dei loro custoditi. Così non avviene. La scarsità di operatori sociali, di psicologi, di educatori, fa sì che non ci si possa accorgere delle disperazioni individuali. I detenuti diventano numeri. E così non resta che attendere con tristezza il trentatreesimo detenuto suicida.
Patrizio Gonnella
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