lunedì 14 luglio 2014

ANTROPOLOGIA DEGLI OGGETTI. A. FAVOLE, Caro oggetto, ti voglio tanto bene, LA LETTURA, 13 luglio 2014

Ridotti dalla società industriale a «cose» o «merci», a strumenti di facile e spesso rapido consumo, molti oggetti della nostra vita quotidiana si stanno prendendo una decisa rivincita. Scopriamo che essi hanno un’«anima», un valore affettivo e relazionale, la capacità di custodire memorie. Il «ritorno degli oggetti», per usare una formula cara a Orvar Löfgren, uno dei maggiori teorici di quelli che vengono definiti «nuovi studi di cultura materiale», è forse dovuto al recupero del fare artigianale; alla crisi che rende improbabili i livelli di consumo degli anni del bengodi; o forse anche a quelle nostre vite troppo dense di virtualità e di frequentazioni online, tanto da farci apprezzare la materialità offline degli oggetti che ci circondano.




Non è la prima volta che gli oggetti si ribellano a essere trattati come «cose» inerti. Nel nostro Paese, fin dal secondo dopoguerra, al fiorire dell’epoca consumistica, personaggi eccentrici come Ettore Guatelli (il fondatore del Museo della civiltà contadina di Ozzano Taro, Parma) rovistavano nelle discariche alla ricerca di quei resti del mondo contadino di cui la modernità non sapeva più che fare. Oggetti che — come ha scritto Pietro Clemente — puzzavano di stalla (Il terzo principio della museografia, Carocci 1999), ancorando uomini e donne a un passato ancora troppo vicino. Decine e poi centinaia di piccoli musei etnografici si sono in seguito incaricati di raccogliere, valorizzare, patrimonializzare quegli oggetti. Più tardi è arrivato il vintage a rivalutare persino il kitsch massificato. Oggi un’ampia letteratura celebra gli oggetti d’affetto del recente passato. Francesco Guccini vi ha appena dedicato due popolari «dizionari» (Dizionario delle cose perdute e Nuovo dizionario delle cose perdute, Mondadori 2012 e 2014).
A fare il punto dell’interesse per gli oggetti nel campo dell’antropologia culturale, a fornire concetti e spunti di lettura del fenomeno, sottraendolo a quella patina mielosa e nostalgica in cui spesso viene avvolto, è il recente volume curato da Luca Ciabarri, Cultura materiale. Oggetti, immaginari, desideri in viaggio tra mondi (Raffaello Cortina 2014). L’uscita del libro segue di poco la traduzione italiana di un altro testo dedicato alla vita sociale degli oggetti, Cose che parlano di noi. Un antropologo a casa nostra di Daniel Miller (il Mulino 2014). Miller è uno degli studiosi più brillanti del consumo, un autore che ha mostrato come gli attori sociali esprimano la loro creatività anche attraverso i prodotti che depongono nel carrello della spesa (Teoria dello shopping, Editori Riuniti 1998). Cose che parlano di noi è il frutto di una ricerca compiuta in un’unica via di Londra, da cui prendono forma dodici storie di vita, dodici personaggi raccontati attraverso gli oggetti che popolano le loro case. Fotografie, mobili, orologi da parete, souvenir di viaggio raccontano emozioni, tragedie, assenze. È un po’ come se, in un mondo orfano delle grandi narrazioni, le persone fossero chiamate a costruire orizzonti di significato a partire dalla scelta, dalla disposizione, dalla conservazione di oggetti «densi», che rimandano con la loro tangibilità, a esperienze e incontri. Ricerche analoghe sono state compiute di recente in Italia: Pietro Meloni, per esempio, ha indagato il rapporto di giovani ragazzi senesi con gli oggetti della loro vita quotidiana, contribuendo a ridefinire il campo di studi della cultura popolare e indagando pratiche creative di riciclo e risparmio (I modi giusti, Pacini 2011).
I saggi contenuti nel volume di Ciabarri Cultura materiale percorrono una strada un po’ diversa, aprendo intrecci e prospettive su società native dell’Oceania, dell’Africa e delle Americhe. Gli autori degli articoli seguono gli oggetti della globalizzazione nei loro percorsi interculturali. Andrew Lattas, per esempio, scopre che macchine fotografiche e telefonini hanno ruoli importanti nei culti del cargomelanesiani. Questi movimenti millenaristici predicono un avvenire in cui i Bianchi lasceranno le isole, inondandole però di tutte le loro cose (da cui il nome culti del cargo). Fin dai primi incontri, gli europei colpirono i melanesiani soprattutto perché possedevano molti e differenziati oggetti. Nelle sue ricerche di campo in Nuova Britannia (una grande isola a nord della Papua Nuova Guinea), Lattas ha scoperto che le macchine fotografiche vengono utilizzate nei culti come un medium di comunicazione con il mondo dei morti. Allo stesso modo, più di recente, i leader di alcuni culti del cargo hanno cominciato a conversare con i morti attraverso i «buchi telefonici», fessure nel terreno che aprono a rivoli sotterranei, i cui gorghi rappresentano la parola dei defunti. La metafora del telefono, un oggetto che rende presente il lontano, consente di ripensare e ri-situare il rapporto con la tradizione: è attraverso i «buchi telefonici» che i viventi cercano di convincere i morti di essere vissuti in epoche selvagge, che hanno ora lasciato spazio a abbondanza e prosperità, a prezzo però del dominio occidentale.
Nei loro viaggi tra le culture, gli oggetti quotidiani del mondo globalizzato non portano necessariamente uniformità. Quando svolgevo le mie ricerche a Futuna, in Polinesia occidentale, alla fine degli anni Novanta, ero colpito dalla presenza, nelle capanne tradizionali, di pesanti e costose coperte firmate. Cosa ci facevano le coperte in pieno clima tropicale? Scoprii che si trattava di oggetti funebri, destinati ad avvolgere i corpi dei morti o a essere distese sulle tombe, oggetti che avevano in parte soppiantato le locali stoffe di corteccia. In un mondo di flussi globali in cui persone, rappresentazioni e cose viaggiano senza sosta, le società locali compiono operazioni di risemantizzazione e risignificazione degli oggetti. Così come gli individui se ne servono per costruire differenze di status e di genere (Pierre Bourdieu, La distinzione, il Mulino 2011). Anche la scansione del ciclo della vita muta il significato degli oggetti. Il saggio di Brad Weiss incluso nella raccolta di Ciabarri, si incentra sul destino delle cose dopo la morte. «Le pratiche di eredità degli Haya, in Tanzania — scrive Weiss — suggeriscono che la morte è stata per molto tempo un momento di definizione del carattere degli oggetti». Un tempo gli Haya distruggevano gli oggetti intimi (zucche per bere, cucchiai, vestiti); oggi quegli oggetti vengono gelosamente conservati dagli eredi, segni di affetto e pegni del ricordo.
Gli oggetti Haya appartenuti ai defunti fanno parte di una categoria che gli antropologi definiscono «beni inalienabili », un concetto messo a fuoco per la prima volta da Annette Weiner. In un celebre libro (Inalienable Possessions, University of California Press 1992) la Weiner proponeva di affiancare alle categorie delle «merci» (oggetti che si possono liberamente vendere o comprare) e dei «doni» (i quali circolano nei rapporti improntati all’amicizia e alla reciprocità), quella dei «beni inalienabili». Una categoria che può ricomprendere sia oggetti di grande valore (oro, diamanti ecc.) sia semplici oggetti di affetto. Uno dei meriti del volume di Ciabarri e, più in generale, dei nuovi studi di cultura materiale, sta nel mostrare che le tre categorie — inalienabilità, dono, merce — non vanno intese in modo rigido. Gli oggetti possono essere mercificati e de-mercificati, donati o conservati come beni inalienabili.
Come mi ha raccontato di recente Sara Colaone, autrice di una ricerca a Ulan Bator, capitale della Mongolia, le banconote di piccolo taglio — da 1, 5, 10 o 20 tugrik — ridotte da una pesante inflazione a un valore di acquisto pressoché nullo (da 0,0005 a 0,01 centesimi di euro) vengono oggi utilizzate come offerte votive nei templi, donate ai bambini in segno di affetto o ancora conservate nelle case e appese agli alberi di Natale. Il denaro, simbolo stesso della mercificazione del mondo, può divenire oggetto di dono e persino bene inalienabile. Gli oggetti insomma sono tutt’altro che materia inerte: la loro «biografia culturale» (secondo l’espressione di Igor Kopytoff) è spesso densa di metamorfosi.

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