Una vecchia battuta che circola tra gli addetti ai lavori dice che se la teologia si occupa di Dio e la psicologia dell’Io, l’antropologia (culturale o sociale) si interessa piuttosto allo… zio. In effetti la parentela è stata, fin dalle origini tardo ottocentesche della disciplina, uno dei suoi temi privilegiati. La parentela è un fenomeno che unisce e differenzia al tempo stesso le società umane: le unisce perché nessuna di esse può esimersi dal dare forma e significato ai fatti della nascita, del matrimonio e della discendenza; le differenzia perché questi processi, lungi dal seguire automatismi biologici, sono culturalmente plasmati.
Nel suo ultimo libro Antropologia sociale delle origini umane, di prossima uscita in Italia per il Mulino, Alan Barnard propone un uso innovativo e, per molti versi, imprevisto degli studi sulla parentela. Lo studioso britannico, specialista di cacciatori e raccoglitori (oggi si preferisce l’espressione «società acquisitive»), ritiene che gli antropologi sociali dovrebbero mettere a frutto le loro conoscenze sulle società contemporanee per comprendere le lontane origini dell’umanità. A partire dalla seconda metà dell’Ottocento, il discorso sui processi di ominazione è stato progressivamente fatto proprio dalla paletnologia, dall’archeologia e dall’antropologia biologica; più di recente, dalla linguistica, dalla genetica e dalle neuroscienze. E gli antropologi sociali? Non hanno nulla da dire sulle prime società umane?
In realtà, l’esperienza etnografica, le teorie e i concetti elaborati nello studio di una variegata molteplicità di culture, se integrati con le acquisizioni e le conoscenze maturate dalle altre discipline, potrebbero rivelarsi molto produttive. Il metodo è quello dell’«analogia etnografica» — proiettare sul passato dati relativi a studi compiuti sul campo, incrociandoli con le «evidenze » e le inferenze di altre discipline. Quella proposta da Barnard è, per riprendere il titolo dell’ultimo capitolo del libro, «una nuova sintesi»: una definizione impegnativa, che fa il verso al celebre libro di Edward WilsonSociobiologia. La nuova sintesi (Zanichelli, 1979). La «nuova sintesi» di Barnard è tuttavia lontana dalla sociobiologia: non si tratta di riportare il sociale al sostrato biologico, ma di proiettare gli studi su parentela, etnicità, scambio, riti e miti sulle lontane origini dell’umanità.
Prendiamo come esempio proprio la parentela e il modo in cui può essere connessa alle tre grandi rivoluzioni che, secondo Barnard, caratterizzano il processo evolutivo che porta a Homo sapiens. Seguendo da vicino i lavori di Aiello e Dunbar sulla coevoluzione tra dimensione della neocorteccia e dimensione dei gruppi e quelli di Calvin e Bickerton sul linguaggio, Barnard ipotizza che la prima «rivoluzione del significante» abbia avuto luogo nel lungo passaggio tra le australopitecine e la comparsa di Homo habilis (quest’ultimo visse tra 2,3 milioni e 1,4 milioni di anni fa). Se le prime vivevano in gruppi di 65-70 individui, Homo habilis contava circa 75-80 individui e i successivi Homo erectus (1,9-1,4 milioni di anni fa) e Homo ergaster (1,8-1,3 milioni di anni fa) circa 110. In questa lunga fase, gli Homo impararono a dare nomi alle cose e, secondo l’ipotesi di Barnard, a strutturare il campo della parentela. Comparvero probabilmente in questa fase i termini per designare il «padre» (il padre biologico, i suoi fratelli e forse tutti gli individui maschi della loro generazione), la «madre», i «fratelli»: termini di tipo classificatorio, simili a quelli che Louis Henry Morgan ritrovò a metà Ottocento tra i nativi americani. Questa prima rivoluzione è detta anche «della condivisione» perché i cacciatori e raccoglitori delle origini, adottata una dieta carnea, dovettero elaborare precise regole per condividere cibo e attrezzi. Forse, come per gli attuali cacciatori e raccoglitori del Kalahari (Africa australe), gli artigiani che realizzavano gli attrezzi per la caccia avevano diritto a una parte della preda.
La «rivoluzione sintattica» segna il passaggio alle forme arcaiche di Homo sapiens. Il linguaggio consente ora di formulare frasi e di distinguere «noi» e «loro»: Homo heidelbergensis (tra 600 mila e 250 mila anni fa) vive in gruppi di 120 individui circa. Dal punto di vista della parentela, prende forma la distinzione tra i fratelli e le sorelle della madre: una distinzione cruciale, perché i discendenti dei fratelli (cugini incrociati) danno vita a gruppi in cui si può trovare un coniuge, mentre i discendenti delle sorelle (cugini paralleli) formano gruppi in cui non si può contrarre matrimonio. Nasce insomma l’esogamia, ovvero l’obbligo di sposarsi fuori dal proprio gruppo. È la scintilla che innesca la dinamica dello scambio, di uomini e donne e delle «cose» che li accompagnano.
La terza rivoluzione o «rivoluzione simbolica» vede la nascita di Homo sapiens anatomicamente moderno (circa 200 mila anni fa) e «fu, in un certo senso, à la Lévi-Strauss. La vera parentela coincide con l’emergere di strutture elementari di parentela», scrive Barnard. Uomini e donne vivono in gruppi di circa 150 persone — secondo l’ipotesi di Dunbar il limite massimo della comunità basata sui rapporti faccia a faccia. La sintassi è ormai pienamente sviluppata: domina una forma di parentela «universale», quella che si ritrova praticamente in tutti i gruppi di cacciatori raccoglitori contemporanei. Ognuno cioè classifica tutti gli altri come parenti di qualche tipo e non esiste la categoria dei non parenti. Fondamentale, in questo sistema sociale, è la distinzione tra parenti paralleli (figli/e di fratelli/sorelle dello stesso sesso) e parenti incrociati (figli/e di fratelli/sorelle di sesso diverso). La scelta del coniuge è prescritta all’interno dei parenti incrociati. La comunità risulta così divisa in due «metà» (o in più gruppi) che si scambiano regolarmente individui, creando un flusso costante di beni e persone.
Per il 95% della sua storia, l’umanità moderna è vissuta in gruppi di circa 150 individui, ha praticato la condivisione dei beni e ha distinto i parenti in paralleli e incrociati. L’approdo al Neolitico sconvolse questi schemi, avviando la transizione dalla condivisione al possesso e dando vita a quelle che Lévi-Strauss chiamava le «strutture complesse della parentela», in cui non esistono norme rigide per la scelta del coniuge. Le persone con cui si hanno relazioni sono distinte in parenti e non parenti.
Con il libro di Barnard nasce dunque, come l’autore auspica, una nuova disciplina, l’antropologia sociale delle origini umane? La proposta è allettante, anche se lascia spazio a dubbi e perplessità. Fino a che punto si può spingere l’«analogia etnografica», ovvero l’applicazione di conoscenze maturate nel contemporaneo a società preistoriche? È vero, come dice Barnard, che anche la genetica e l’archeologia, applicate alle origini, fanno ampio uso dell’inferenza: ma non si rischia così di cadere nuovamente in forme di antropologia puramente congetturale? E ancora: non c’è il rischio di considerare i cacciatori e raccoglitori contemporanei o le società orticole egualitarie come dei «fossili» viventi? Secondo Barnard è bene non indulgere troppo nel «politicamente corretto»: i cacciatori raccoglitori «sono spesso orgogliosi della profondità storica delle loro radici culturali. Nella loro visione è piuttosto da mettere in dubbio l’umanità di noi uomini agricoli e industrializzati».
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