Nel corso di questi anni sui cadaveri di alcune vittime state trovate però lesioni poco compatibili con una morte per suicidio: occhi pesti, orecchini strappati, costole fratturate, polsi rotti, organi interni spappolati, lividi ed ematomi su varie parti del corpo. In certi casi, poi, le dinamiche dei suicidi risultano misteriose se non rocambolesche, poco credibili o anomale: c'è chi, ad esempio, si è strangolato, ma ha mantenuto i piedi poggiati sul pavimento. C'è chi ha bagnato la canottiera e poi se l'è stretta attorno fino a morire. Chi è morto buttandosi dal letto a castello con una corda al collo. Chi s'è appeso ad un lenzuolo facendo finire però il suo sangue non solo sul pavimento della cella, ma anche fuori. E chi, pesante quasi cento chili, s'è impiccato con la stringa di una scarpa.
Le stranezze riguardano anche il profilo psicologico di chi risulta essersi tolto la vita o la sua situazione processuale: in genere decide di commettere un gesto estremo una persona depressa. E invece nelle carceri italiane capita che si suicidino detenuti che stanno per finire di scontare la pena, o da poco pentiti, o in procinto di pentirsi. Che avevano appena manifestato soddisfazione per un trasferimento che li avvicinava ai parenti. Oppure "ospiti" che avrebbero dovuto testimoniare contro agenti accusati di violenze e abusi sessuali o che avevano scritto ai familiari denunciando di essere state vittime di pestaggi e di avere paura di essere uccisi.
È proprio certo allora che tutti questi morti - 60 l'anno, oltre 600 in un decennio - si siano davvero suicidati? O può capitare invece che un omicidio commesso in carcere venga fatto passare per suicidio, trasformandosi, dunque, in un delitto perfetto? Insomma, può capitare che in alcuni casi siano stati "suicidati"?
La morte di Marco Erittu è una risposta in parte affermativa a questi angoscianti dubbi. Il detenuto, in isolamento al San Sebastiano di Sassari, fu trovato agonizzante nella sua cella il 18 novembre 2007: suicidio, sentenziò in un primo tempo il carcere. Una verità è emersa nel 2011, grazie a un pentito, Giuseppe Bigella, che, con le sue rivelazioni, ha portato all'arresto di un agente e di due detenuti. Secondo le sue accuse, il primo lasciò aperta la porta della cella per consentire agli altri due di entrare e uccidere Erittu. Il poliziotto, dopo l'omicidio, richiuse la cella e così la morte del detenuto, trovato con un sacchetto di plastica infilato in testa, fu archiviata come suicidio. Il processo s'è concluso con due verità contrapposte, e questo la dice lunga di come sia difficile, se non impossibile, ricostruire a livello giudiziario quanto accade realmente nel buio delle mura di una prigione. Il gup di Sassari ha creduto al pentito che si è autoaccusato e lo ha condannato a 14 anni di carcere. La corte d'Assise di Sassari, invece, con un coup de théâtreprocessuale, ha stabilito che Marco Erittu non è stato ucciso. E ha assolto i coimputati di Bigella. Morale, c'è un sedicente assassino reo confesso che sta scontando, e che continuerà a scontare indefinitamente, la pena inflittagli da un gup per un delitto avvenuto in una cella che, per una corte d'Assise, non è mai stato commesso. Ma quanti casi-Erittu, con verità opposte, dubbie, e rimaste appese nell'incertezza, si nascondono dietro alle morti classificate dal burocratico linguaggio dell'amministrazione penitenziaria come "tentativi anticonservativi"?
Nel decennio 2000-2009, secondo una ricerca, i detenuti suicidi nelle carceri italiane sono stati 568, mentre nel decennio 1960-1969 furono "appena" cento, rispetto a una popolazione carceraria di circa la metà dell'attuale. In percentuale, dunque, la frequenza è aumentata del 300 per cento. I motivi di questo incremento possono essere numerosi: 40 anni fa i detenuti erano prevalentemente criminali "professionisti", mentre oggi la maggior parte dei carcerati è costituita da emarginati, tossicomani, immigrati sans papiers, malati mentali. Il primato negativo per i suicidi spetta al carcere di Cagliari: con mezzo migliaio di persone (affollamento al 146 per cento) e 11 suicidi in 5 anni, registra una frequenza media di un suicidio ogni 46 detenuti. Quello positivo a Verona, con una frequenza di un suicidio ogni 318 ospiti.
Manconi: "Ancora non chiarito il 40% delle morti in cella"
In questo quadro in cui il suicidio è un evento così frequente (in media 5 al mese, più di uno alla settimana), accade che siano presentate come suicidi morti che, forse, non lo sono. Non ci sono prove per sostenere la tesi che si tratti di verie propri omicidi, s'intende. Ma indizi, sospetti, stranezze, e anomalie inducono a sollevare pesanti dubbi. Va detto che svolgere indagini, in un ambiente di privazione di libertà come quello di una prigione, è spesso difficile, se non impossibile: chi sa spesso tace per paura di ritorsioni. Chi deve fare le indagini, come il caso Erittu insegna, a volte è complice dei responsabili.
Carlo Saturno aveva denunciato violenze e sevizie subite all'età di 16 anni, quando era recluso al minorile di Lecce, da parte di nove agenti finiti sotto processo. Il 30 marzo del 2011, quando il dibattimento era ancora in corso, il giovane si è impiccato nella sua cella del carcere di Bari con un lenzuolo. Cinque giorni dopo il suo suicidio, il 5 aprile, era prevista la sua testimonianza d'accusa al processo contro i suoi presunto aguzzini. Nonostante fosse un detenuto ad alta sorveglianza, è rimasto appeso davanti allo spioncino della cella al letto a castello (di poco più alto di lui) per 30 minuti prima che qualcuno s'accorgesse di quel che stava accadendo. Poche ore prima di "uccidersi" era rimasto coinvolto in una colluttazione con un agente perché rifiutava il trasferimento in un altro padiglione. Aveva da poco scritto una lettera alla sorella raccontando di "sentirsi vittima della prepotenza delle guardie". E di avere molta paura perché temeva di essere picchiato. I medici che lo hanno seguito nella Rianimazione del Policlinico di Bari hanno manifestato dei dubbio sul fatto che fosse in coma per asfissia: com'è morto Carlo Saturno?
Carmelo Castro, un ragazzo di appena 19 anni, si è suicidato quattro giorni dopo il fermo. L'ultima foto segnaletica lo aveva ritratto con un occhio pesto, un labbro gonfio, un orecchino strappato. I genitori hanno il sospetto che prima di entrare in carcere sia stato pestato durante il fermo nella caserma dei carabinieri. Come ha fatto ad appendersi a una branda alta come lui, circa un metro e settanta, con un cappio lungo appena qualche decina di centimetri? Era sottoposto a regime di sorveglianza speciale. Perché nessuno lo teneva d'occhio quando s'è ucciso?
Stessa anomala scena il "suicidio" nel carcere Burla di Parma di Camillo Bavero, 39 anni, trovato impiccato in un modo quanto mai singolare: il cappio era annodato alle sbarre della cella, ma i suoi piedi poggiavano sul pavimento. Poco prima del suicidio, aveva ottenuto l'affidamento ai servizi sociali: perché uccidersi poco prima di uscire di prigione?
Ciro Ruffo, ex affiliato del clan dei Casalesi ammesso al programma di protezione per essersi pentito, s'è tolto la vita nel carcere San Michele di Alessandria tre ore dopo esserci arrivato proveniente da quello di Ariano Irpino. La moglie (che vive sotto protezione con i figli), così descrive la sua salma: "Aveva il naso rotto, un livido sotto l'occhio destro, tanti altri lividi sulla schiena, sulla pancia, in faccia. Ha perso sangue dagli occhi e dalle orecchie". Per il direttore del penitenziario s'è trattato di suicidio per impiccagione. Come ha fatto allora a procurarsi quelle lesioni? Appena arrivato al San Michele era tranquillo, s'era rivolto alla direzione per fare una telefonata, e a un agente aveva chiesto un accendino per fumare. Il corpo senza vita di Ruffo, la faccia rivolta contro il muro, è stato trovato penzolante a un lenzuolo legato alle sbarre. Perché avrebbe dovuto togliersi la vita visto che aveva deciso di collaborare per amore della propria famiglia alla quale, grazie al trasferimento, s'era avvicinato?
Ha deciso di farla finita, impiccandosi con i lacci delle scarpe nella Casa di Reclusione di Carinola, nel casertano, il "pentito" di camorra Angelo Ferrara, di 41 anni. Le sue dichiarazioni nel 2008 avevano portato alla condanna di numerosi esponenti affiliati al clan Moccia di Afragola.
Habteab Eyasu, 37 anni, si è tolto la vita nel carcere di Civitavecchia. Ma sul suo suicidio restano alcuni elementi oscuri. Come, ad esempio, le due ferite in fronte e dietro la nuca. Incompatibili dunque con un'impiccagione. Nel carcere di Montacuto, ad Ancona, s'è impiccato Calogero Colombo, 44 anni, originario di Palermo. Sul fatto è intervenuto il segretario nazionale del Sindacato di polizia penitenziaria, Aldo Di Giacomo: "Ci sono troppi morti nel carcere di Montacuto, quasi 30 negli ultimi 10 anni per un carcere che non è neppure tra i più grandi del paese. Chiederemo un'ispezione al ministro per capire se ci sono state delle responsabilità".
"In carcere tassi di suicidio inaccettabili, bisogna intervenire"
Nel penitenziario di Santa Maria Capua Vetere Carmine Martino, 35 anni, accusato di tentato omicidio, ha inzuppato d'acqua una maglietta e se l'è stretta al collo fino a strangolarsi. Un gesto autolesionistico difficile da portare a termine su sé stessi. Analogo, nella sua improbabile realizzabilità, il metodo utilizzato da un 32enne altamurano, Tommaso Pace, all'interno delle mura del carcere psichiatrico di Barcellona Pozzo di Gotto, in Sicilia: si sarebbe tolto la vita attorcigliando attorno al collo i propri calzini.
Ciro Carrello è stato trovato impiccato nell'infermeria del carcere palermitano di Pagliarelli. La moglie non crede affatto però alla tesi del suicidio. "Lo Stato lo aveva in custodia, adesso deve dirmi perché è morto il mio Ciro", invoca la donna. Dieci giorni prima della morte, Carrello aveva iniziato a fare dichiarazioni ai magistrati della procura di Palermo: stava svelando i retroscena di alcune rapine e soprattutto il ruolo svolto da Luca Bellomo, il nipote acquisito del superlatitante Matteo Messina Denaro, in un maxicolpo avvenuto nei mesi scorsi nel deposito Tnt di Campobello di Mazara. Possibile che un pentito che sta svelando notizie che possono portare al ricercato numero uno per mafia si sia suicidato e non sia stato fatto nulla, in carcere, per scongiurare la sua morte?
Maurizio Riunno, 28 anni, padre di tre figli, si trovava sotto osservazione nel penitenziario di Bessone di Como in una specie di isolamento per evitare contatti con altri indagati. Era accusato di aver partecipato ad un sequestro insieme ad altre quattro persone. La vedova e alcuni familiari hanno descritto così il suo cadavere, che hanno fotografato prima dell'autopsia: "Aveva un occhio nero, una spalla violacea, graffi sulle mani, graffi sul collo".
Samir Riahi, 38 anni, tunisino, si è impiccato con una cintura dei pantaloni nel carcere di Padova. Strano: la cintura viene sempre tolta ai detenuti al momento del loro ingresso. Sempre nel carcere Due Palazzi di Padova, reclusi e guardie conniventi avevano messo in piedi un commercio di droga, sim, telefonini e favori vari in cambio di denaro. Un giro in cui era facile entrare e da cui era difficile, se non impossibile, uscire. Due detenuti ci hanno provato però, raccontando quanto sapevano. Uno dei due, Giovanni Pucci, 44 anni, il giorno dopo aver vuotato il sacco, si è suicidato impiccandosi con una cintura alla finestra della sua cella.
Alberico Di Noia risulta essersi suicidato nel carcere di Lucera. L'udienza che gli avrebbe concesso l'affidamento ai servizi sociali o i domiciliari era prevista per il mese successivo. L'uomo era in cella da solo, "in osservazione" da cinque giorni, poiché aveva avuto un alterco con una guardia penitenziaria. A non credere all'ipotesi del suicidio, Giuseppe Rotundo, ex detenuto che quelle celle d'isolamento le conosce bene. "È stato impiccato. Le mie non possono essere sicurezze. Le sensazioni personali dovute a un'esperienza diretta vissuta in quelle celle, però, mi conducono a ritenere che le dinamiche che hanno portato alla morte di Alberigo di Noia siano identiche a quelle che hanno portato gli agenti a mettere in atto nei miei confronti un'azione punitiva violenta. Alberigo forse potrebbe essere stato vittima di una situazione analoga finita tragicamente".
"Più ispezioni a sorpresa per fermare la strage"
di ALBERTO CUSTODERO
ROMA - Ricostruire la verità su episodi avvenuti in carcere è difficilissimo. Ci si scontra con una omertà diffusa e trasversale. Chi sa tace per paura di ritorsioni. Il corpo di polizia penitenziaria che svolge i primi accertamenti a volte è complice dei responsabili, se non addirittura autore dei reati. Non basta neppure la dichiarazione di un pentito, come il caso Erittu insegna, a squarciare il velo del mistero che avvolge possibili delitti camuffati da presunti suicidi. Le procure talvolta chiudono frettolosamente le indagini. Quando c'è un filmato che potrebbe aiutare a fare chiarezza, spesso non viene acquisito. Quando c'è un testimone che è disposto a parlare, affrontando ritorsioni e rischi personali, capita non venga interrogato o non venga creduto.
È il caso dei pestaggi (presunti) dei quali è stato vittima Dimitri Alberti. Premessa: Alberti viene pestato una prima volta al momento del suo arresto da parte dei carabinieri, al punto che la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo condanna l'Italia per violazione dell'articolo 3 della Convenzione "Trattamenti inumani e degradanti". Una volta in carcere, a Vicenza, i pestaggi su Alberti - incredibilmente - continuano. Lo denuncia all'allora deputata Rita Bernardini, ora segretario dei Radicali, un detenuto, Prince Max Who Obayangbon, nigeriano da anni in Italia, che assiste dallo spioncino alla scena della violenza che si consuma davanti alla sua cella. Da quello stesso spioncino Max Who implora gli agenti di smettere di picchiare Alberti. "Erano le due di notte del primo agosto 2012 - racconta Max Who - vedevo che lo trascinavano e gli tiravano calci in testa. Io li pregavo di smetterla. Tutti i detenuti ad un certo punto hanno protestato per quel pestaggio". Di Alberti si sa che fu poi ricoverato in una struttura sanitaria in stato neurovegetativo colpito da una malattia degenerativa - dicono - non provocata da quei calci. Alberti non è mai stato in grado di raccontare quanto gli è successo. "I filmati delle telecamere - dichiara l'avvocato Vincenzo di Nanna che assiste Max Who - non risulta che siano mai stati acquisiti". L'indagine s'è conclusa con l'archiviazione per il pestaggio e la denuncia per calunnia contro il testimone oculare, nel frattempo diventato libero e laureatosi.
Marta Riunno ha lottato per conoscere la verità. Suo marito, Maurizio, 28 anni, ufficialmente s'è impiccato nel carcere di Bassone, a Como. "Ma io non ci ho mai creduto - racconta la donna - quando ho visto il suo cadavere aveva graffi sulle mani e sul collo. Il giorno della morte mi aveva scritto una lettera per chiedermi di mandargli i documenti per fare le telefonate a casa". Ma a non convincere Marta Riunno - e i suoi legali - è soprattutto la ricostruzione fatta dal carcere. "Mio marito è morto verso le 16 - spiega - nella relazione si parla dell'agente che ha iniziato il turno a quell'ora. Ma non si fa cenno al poliziotto che era in servizio prima, cioè quando mio marito è morto. Perché questa omissione?".
"Le difficoltà di ricostruire la verità all'interno di una prigione - spiega l'avvocato di Nanna - sono enormi, insormontabili, posto che le indagini sono spesso delegate alla stessa polizia penitenziaria. Proprio in questi giorni ho ricevuto un cliente che lamenta d'aver subito un pestaggio ad opera di alcuni agenti di custodia e com'era prevedibile ha avuto problemi persino a spedire, tramite gli uffici carcerari, l'atto di denuncia alla procura della Repubblica competente". Cosa si deve fare per rendere trasparente il sistema carcerario? "I nostri parlamentari - è il parere del legale di Nanna - dovrebbero stabilire dei veri e propri turni per svolgere delle visite ispettive periodiche in tutte le carceri. Sono in numero sufficiente per farlo".
"Le carceri - osserva Rita Bernardini, segretario dei Radicali, da sempre impegnata sul fronte dei diritti dei detenuti - devono smetterla di essere quei luoghi oscuri e impenetrabili che sono oggi". "Per ridurre quasi a zero gli atti di autolesionismo e le morti, comprese quelle sospette - aggiunge - basterebbe che magistrati, parlamentari, consiglieri regionali e garanti dei detenuti applicassero quanto previsto dall'articolo 67 dell'ordinamento penitenziario che consente loro di visitare "a sorpresa", cioè senza preavviso e autorizzazione, gli istituti penitenziari". Il problema, per Bernardini, è il rispetto delle leggi. "Se fossero rispettate - spiega - avremmo risparmiato sofferenze e morti. Basti pensare al ruolo mai attuato della magistratura di Sorveglianza che dovrebbe agire a tutela dei diritti dei detenuti. Quanti sono i magistrati che visitano "con frequenza" le celle dei detenuti e degli internati? Nella realtà quasi non esistono, tanto che abbiamo dovuto attendere la sentenza Torreggiani della Corte di Strasburgo di due anni fa perché fossero riconosciuti i "trattamenti inumani e degradanti" che l'amministrazione penitenziaria ha riservato e purtroppo tuttora riserva ai suoi reclusi".
Un faro che rischiara il buio delle prigioni lo ha acceso "Ristretti orizzonti", sito di cultura e informazione dal carcere. "Con il dossier 'Morire di carcere' iniziato 15 anni fa - spiega la direttrice Ornella Favero - abbiamo voluto ridare la dignità di un nome e di una storia di vita alle persone che muoiono in carcere, fino a quel momento rappresentate solo da un numero progressivo nelle statistiche, che peraltro erano quasi introvabili, tenute dal Dap". "Il nostro non è un lavoro di denuncia - dice ancora la responsabile di "Ristretti orizzonti" - cerchiamo solo di fare emergere questa realtà poco conosciuta, di sollevare a volte dei dubbi, di rilevare quando è il caso delle criticità".
Il primo problema, spiega ancora Favero, è stato, e continua ad essere, quello di reperire informazioni sulle persone "morte di prigione". Nel 2010, assieme ai Radicali, a Radio Carcere, ad Antigone e ad Altro Diritto, è stato costituito l'"Osservatorio permanente sulle morti in carcere". "L'amministrazione penitenziaria non è quasi mai fonte diretta di notizie - sottolinea - la prima segnalazione del decesso di un detenuto arriva di solito dai suoi familiari, oppure dalla rete del volontariato, o dai Garanti, o dai sindacati di polizia, o semplicemente da un trafiletto su un giornale locale. A questo punto chiediamo conferma al direttore del carcere, o direttamente al Dap, poi diffondiamo la notizia".
Per Favero gli aspetti più complicati nel rapporto con il Dap derivano sostanzialmente dalla differente "lettura" che a volte si dà a una morte "di carcere". "Se un detenuto si impicca in cella, viene soccorso quando è ancora in vita, ma purtroppo non ce la fa e muore dopo il ricovero all'ospedale (o durante il trasporto in ambulanza) per noi è a tutti gli effetti un 'morto di carcere' per suicidio. Ci risulta invece che l'Amministrazione penitenziaria lo consideri per lo più un 'tentativo di suicidio, poiché la 'constatazione di morte' (l'atto ufficiale che certifica l'avvenuto decesso) avviene fuori dal 'recinto istituzionale' rappresentato dal muro di cinta del carcere. A fine anno, quindi, nelle nostre statistiche c'è sempre qualche 'morto di carcere' che al Dap non risulta".
"Un secondo problema è la 'classificazione' dei morti di carcere: per l'amministrazione penitenziaria esistono solo due categorie: il suicidio e la morte per 'cause naturali', oltre che qualche (raro per fortuna) omicidio. A conclusione di ogni anno esce un 'Bollettino sugli Eventi critici' dove non c'è spazio per il dubbio. Nel Dossier invece abbiamo introdotto la definizione di morte per 'cause da accertare' e la utilizziamo doverosamente ogni qualvolta su di un caso ci sono indagini in corso. Le inchieste di solito durano anni, il più delle volte si concludono con una archiviazione, a volte arrivano a stabilire responsabilità di vario grado, raramente accertano una causa di morte differente da quella prospettata, ma può succedere.... per questo lasciamo nel dossier la definizione 'cause da accertare' fino alla conclusione dell'inchiesta".
"Un terzo problema - continua Favero - è quello di stabilire il rapporto tra la frequenza dei suicidi in carcere e quelli nella popolazione italiana. L'Oms informa che in Italia il tasso di suicidio è pari allo 0,5 ogni 10mila residenti. In carcere il tasso è di circa 1 suicidio ogni 1.000 detenuti mediamente presenti durante l'anno, quindi la frequenza risulta 20 volte superiore. Il Dap calcola in modo diverso, prendendo in considerazione il numero complessivo dei detenuti 'transitati' nelle carceri durante l'anno e non la media dei presenti, quindi la frequenza dei suicidi si dimezza e il rapporto con la popolazione 'libera' scende a 10:1. Questo sistema di calcolo, peraltro, è stato introdotto abbastanza di recente: fino a pochi anni fa il rapporto 20:1 non era messo in discussione".
"Ma questo calcolo - precisa Favero - si presta a una critica: se consideriamo non la media dei detenuti presenti ma tutti quelli "transitati" durante l'anno, allora parimenti dovremmo contare i suicidi non solo dei "residenti" in Italia, ma di tutti coloro che vi sono transitati per lavoro, turismo, studio, etc... e credo che le proporzioni tornerebbero come sono sempre state. In carcere ci si uccide 20 volte di più che fuori". Un fatto è certo: dal 2000 ad oggi si sono tolte la vita 858 persone. Troppe.
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