Hannah Arendt scriveva della banalità del male e, mutatis mutandis, così si potrebbe chiamare la situazione della (contro) riforma della Rai. In queste ore sta arrivando nell’indifferenza – a parte il sit in convocato tra gli altri da Move On — al giro di boa della prima lettura, nell’aula del senato.
Purtroppo, il testo uscito dalla commissione competente, è mostruoso: un ircocervo tanto autoritario quanto consociativo. Si è già parlato ampiamente del delitto perfetto ai danni della Rai e della stessa democrazia dei media, retta quest’ultima su una costruzione traballante, che crollerebbe se passasse l’idea – il vero sottofondo del progetto — di un servizio pubblico scivolato dalla zona leader dello sviluppo crossmediale alla classifica bassa dei broadcasting di vecchia generazione.
Insomma – come ha rilevato Corradino Mineo — si passa a un altro «duopolio», formato da Sky e Mediaset.
Tra l’altro, l’inserimento dell’aggettivo «attuale» per specificare la concessionaria del servizio pubblico fa pensar male. Attuale significa che nel maggio del 2016, alla scadenza del rapporto con lo stato, vi potrebbero essere più aziende concessionarie?
Il sospetto diventa forte se si legge la riscrittura dell’articolo 4, ovvero la delega al governo per la ridefinizione della disciplina del canone. Cameron docet? L’inserimento dell’emittenza locale «per la funzione di pubblico interesse svolta» apre la strada ad un possibile pasticcio, di cui radio e televisioni private rischiano di essere l’inconsapevole cavallo di Troia per l’inconfessato proposito di frantumare il medium pubblico.
Invece di bucherellare l’unitarietà del servizio, si dia seguito alle promesse del governo sulle frequenze e sul fondo dell’editoria — prosciugato — che dovrebbe ricomprendere, secondo l’annunciata riforma dell’editoria, anche l’emittenza locale. Del resto, tale parte preziosa e bistrattata del sistema è ben avvertita rispetto alle lusinghe strumentali. E’ dalla legge 422 del 1993 che se ne parla. Invano.
Se si allunga lo sguardo all’articolo 5, ecco che l’altra delega – quella per la modifica del Testo Unico del 2005 — limita il perimetro della “nuova” Rai solo a tre punti: trasmissioni per i minori, obbligo di presenza sull’intero territorio nazionale, diffusione delle trasmissioni per le diversità linguistiche. E la famosa missione di servizio pubblico-bene comune nell’era digitale?
Siamo di fronte ad una svolta silenziosa, che non solo riporta il quadro dei rapporti di potere – con il netto privilegio dato all’esecutivo che indica l’amministratore delegato– a «prima della prima» (la legge 103 del 1975), ma apre la strada alla diminuzione del peso della sfera pubblica.
Insomma, come la legge 10 del 1985 sancì la concentrazione dell’impero berlusconiano, ora il ddl 1180 rischia di dare il colpo di grazia alla Rai.
Tra l’altro, va contro lo spirito e la trama del testo che – quando era ministro delle comunicazioni — depositò Paolo Gentiloni. E pure contro numerose altre ipotesi provenienti sempre dall’alveo del Pd, come gli articolati firmati da Veltroni e da Bersani nella passata legislatura. E svariati esperti — inizialmente coinvolti — si sono sfilati.
La Federazione nazionale della stampa e il sindacato dei giornalisti della Rai hanno criticato aspramente il ddl, ricordando che nell’agenda delle priorità non ci sono né l’auspicata riforma del sistema delle comunicazioni, né la regolazione del conflitto di interessi. Peggio. Il Gasparri all’inizio rottamato sembra riabilitato. Un «patto» scellerato? Sicuramente una débâcle.
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