Un atto di guerra». François Hollande, presidente a fine mandato, non ha dubbi : «Quanto accaduto a Parigi e Saint-Denis è un atto di guerra e, di fronte alla guerra, il Paese deve prendere decisioni appropriate. (…) Un atto di guerra preparato, organizzato, pianificato all’esterno con complicità all’interno che l’inchiesta metterà in luce».
Nel frattempo, mentre Hollande attende le sue elezioni e la sua inchiesta, con altri mezzi la guerra è cominciata. I fatti, forse, non sono ancora chiari, ma le opinioni hanno preso a circolare. La tragedia di Parigi ha inevitabilmente colpito tutti. Molto si è insistito sulle emozioni e le impressioni dei singoli: testimonianze, racconti, lacrime e il famigerato storytelling che si è già accartocciato su se stesso. Al lutto, mai elaborato, è conseguito il panico – elaborato fin troppo. Nascono qui, in una zona grigia troppo a lungo sottovalutata, le reazioni dei «deputati a reagire», gli intellettuali disorganici alle accademie, ma organici rispetto ai media che in Francia chiamano intellos. E qui il discorso diventa diverso, perché rischia di contribuire – se già non l’ha fatto – a costruire un terreno comune dentro il quale far slittare un conflitto e rendere la clash of civilisation una profezia che tutti abbiamo contribuito a autoavverare. Ne parliamo con l’antropologo Jean-Loup Amselle, che insegna all’Ecole des Hautes études en sciences sociales (Ehess) di Parigi, e da tempo lavora sui fenomeni di «etnicizzazione» del conflitto in seno alla società europea.
Lo scorso anno, proprio sulle pagine del «manifesto» (19/12/2014), parlava di una categoria da lei introdotta nel dibattito: i «rosso-bruni». I rosso-bruni sono «nuovi» intellettuali abilissimi nel costituire una falsa opposizione critica, sempre ben «mediatizzata» ma sempre capace di presentarsi come irregolare e fuori dagli schemi. Dopo i fatti parigini, lei vede un riposizionamento dei «rouge-bruns»?
Ci troviamo nello stato di confusione più totale in ragione del fatto che siamo davvero in difficoltà nell’analizzare la natura dello Stato islamico. Questo possiede caratteristiche ambigue: è uno «Stato» di tipo fascista, animato da una pulsione di morte, ma al tempo stesso è la sola forza contro-egemonica di fronte all’Occidente. Parliamo quindi di uno Stato nazionalista-musulmano ma, al contempo, internazionalista. Questo semplice fatto rende fragili le classiche analisi ortodosse dell’estrema sinistra. La posizione del Npa (il Nuovo partito anticapitalista), ad esempio, che legge negli attentati del 13 novembre una reazione all’imperialismo, illustra bene a tale riguardo le difficoltà di sviluppare una risposta marxista coerente fuori da antichi schemi che, oramai, non funzionano più.
La confusione «rosso-bruna» nasce da questo problema ed è ben rappresentata da Michel Onfray, filosofo da scrivania e tastiera, vicino d’altronde alle posizioni del Npa, che ha di recente attribuito al Corano la responsabilità della violenza jihadista, sostenendo, allo stesso tempo, che gli attentati di Daesh sono una risposta all’imperialismo occidentale.
Un altro rappresentante della sfera di influnza «rosso-bruna», Jean-Pierre Chevènement, chiama a sé una «Repubblica energica», mentre Jean-Paul Brighelli, vecchio personaggio dell’estrema sinistra passato all’estrema destra antisemita, autore di un libro in uscita significativamente titolato Voltaire ou le Jihad chiede da par suo che certe libertà pubbliche vengano sospese e si instauri uno Stato forte. Infine, last but not least, Michel Houellebecq, vecchiogauchiste, autore islamofobo di successo – pensiamo al suo Sottomissione – che in un articolo del Corriere della Sera fustiga tanto la destra, quanto la sinistra preparando il terreno a Marine Le Pen. In un senso generale, potremmo dire che tutta una frangia dell’intelligentsia sta per virare al razzismo, ma dietro copertura.
Quale copertura? Sembra che i nomi da lei fatti siano solo l’avanguardia esposta di un riposizionamento generare oramai prossimo…
La copertura della legittimità del dibattito, della libertà di espressione, della lotta contro il «politicamente corretto», della difesa della laicità, cose che portano a difendere nient’altro che i valori di una Francia «bianca» e «cristiana», persino nell’ambito culinario come nel caso del fenomeno che alcuni chiamano «kebabofobia».
Dopo il 13 novembre, abbiamo visto spuntare su Facebook ritratti e immagini di profilo su sfondo tricolore. Ma il nazionalismo non è unicamente francese, è anche europeo e regionalista. Tutto questo non fa che portare acqua al mulino di Hollande, che si sta rappresentando come un George Bush in salsa francese, puntellando così le fondamenta di uno Stato sicuritario e liberticida. Vedremo un Patriot Act à la française, insomma uno «Stato di guerra».
Forse ci siamo già dentro, ma ancora non lo sappiamo. In fondo, ogni guerra, oggi, è una guerra impura che si svolge con ogni mezzo, e ogni mezzo, rovesciando la celebre massima di Clausewitz, altro non è che una protesi di guerra…
Ciò a cui assistiamo è l’accelerazione dello scivolamento del paesaggio politico verso la destra e verso l’estrema destra, favorendo le posizioni più paradossali. Correndo appresso a Sarkozy e Marine Le Pen, Hollande rischia semplicemente di far guadagnare terreno a entrambi alle prossime elezioni presidenziali.
Anche l’idea di «multiculturalismo» liberale è entrato in crisi, in Europa. Molti di coloro che si trovano a militare per Daesh vengono da seconde o terze generazioni di migranti. Sono cioè persone che sul piano formale hanno vissuto tutto il processo dell’integrazione liberale…
Ufficialmente, in Francia il multiculturalismo non ha diritto di cittadinanza, anche se è presente nei dispositivi di Stato. Ma non è solo e soltanto il multiculturalismo liberale che ad essere saltato. Ricordiamo un punto critico spesso lasciato in ombra nella discussione: molti jihadisti provengono da famiglie non musulmane. Il problema, allora, è che le società occidentali, la Francia tra le altre, non offrono alcuna prospettiva e alcun futuro ai giovani. Non parlo solo in termini di impiego e lavoro, ma anche in termini di incardinamento intellettuale. Non c’è più un «racconto nazionale» coerente, non ci sono più partiti, niente sindacato, niente scuola, niente servizio civile o militare, niente che sia capace di dare un senso all’esistenza di questi ragazzi. In un contesto simile, il culto del denaro promosso dal liberalismo non basta per dare ordine alla vita di queste generazioni. Questo vuoto spalanca le porte a ideologie di tipo spiritualistia e new age che oggi sono rigogliose e fiorenti. Allo stesso modo, la seduzione esercitata da Daesh nei riguardi di un certo numero di ragazzi e ragazze può spiegarsi così, anche se questo li conduce agli atti più orribili.
Persino il discorso sulla «laicità» come antidoto al «fanatismo» diventa parossistico in questa situazione…
La laicità secondo il modello francese non si poteva compredere se non in rapporto alla lotta contro una religione egemonica: il cattolicesimo, considerato alla stregua di un «oppio del popolo». Oggi, la religione o, meglio, il religioso è visto come «il sospiro della creatura oppressa», per riprendere l’espressione di Marx. L’islam si inscrive in questa prospettiva e tutto questo ovviamente si lega allo sviluppo delle idee postcoloniali.
Tra gli effetti perversi del postcolonialismo vi sarebbe il rischio di etnicizzare i conflitti. Ma nell’attuale contesto, anche la questione dei diritti umani e dell’universalismo non è priva di insidie…
Ciò che fanno i postcoloniali è insorgere contro l’imposizione dei diritti umani all’umanità nel suo complesso, poiché giudicano questi diritti di ispirazione occidentale. Le porto un esempio: certi omosessuali dei paesi del sud protestano contro il fatto che le organizzazioni gay occidentali vogliano imporre il coming out agli omosessuali del sud poggiando sul fatto che nelle loro società l’omosessualità è un affare privato e non deve essere esposto sulla pubblica piazza.
Nell’«Ethnicisation de la France» lei parla di una frammentazione del corpo sociale. Frammentazione che mette l’uno contro l’altro due segmenti della popolazione: identità maggioritaria contro identità minoritarie. Crede che in seguito agli avvenimenti di Parigi si assisterà a una radicalizzazione di questa divisione?
Penso che la guerra intrapresa contro Daesh bombardando in Iraq e Siria, ma anche gli interventi in Mali e nella Repubblica Centrafricana, interventi tutti diretti contro l’islam radicale, non può che alimentere il flusso sempre più importante di jihadisti diretti in Medioriente o operativi sul suolo francese. Per una serie di ragioni, la Francia è il tallone d’Achille dell’Occidente e per questa ragione Daesh la attacca. D’altra parte, va detto che gli attentati suscitano già reazioni islamofobe e accentuano la divisione tra popolazioni venute dal mondo arabo-musulmano, indipendentemente dalla loro nazionalità francese o meno, che si considerano «Français de souche». Ma questa islamofobia non impedisce il perpetuarsi di altre forme di razzismo, come l’antisemitismo.
Identità, una parola pericolosa. Ma oggi siamo già oltre anche rispetto a questo pericolo e nello spazio pubblico, oltre che nel dibattito politico, siamo passati alla questione dell’identità in guerra. Lo spazio sociale sembra già scomparso dal nostro orizzonte…
Credo che tutto si stia assemblando in modo tale da farci entrare davvero in una «guerra di civiltà». In questo processo l’identità viene allora messa in primo piano. Il sociale sta lasciando a poco a poco il posto al razziale. Con grande soddisfazione dei postcoloniali. Questa posizione si è chiaramente espressa il 31 ottobre, a Parigi, alla «Marcia della dignità contro il razzismo». C’erano tutte le organizzazioni postcoloniali, tranne le organizzazioni antirazziste universaliste. Ciò che è in questione in taluni settori delle popolazioni discriminate, almeno attraverso i loro portavoce, è l’idea che l’universalismo sia «bianco», che esista dunque un «privilegio bianco», che consente di sfuggire al razzismo. Così facendo ci mettiamo in un vicolo cieco, dobbiamo uscirne. Per questo dobbiamo combattere.
DALLA VOCAZIONE
UNIVERSALE DEI DIRITTI
UMANI ALLO STUDIO
DEL METICCIATO
Antropologo, professore all’Ecole des Hautes études en sciences sociales (EHESS) di Parigi, Jean-Loup Amselle è redattore capo dei «Cahiers d’études africaines» . Ha studiato le questioni del meticciato e del multiculturalismo in lavori come: «Logiche meticce. Antropologia dell’identità in Africa e altrove» (Bollati-Boringhieri, 1999); «Connessioni. Antropologia dell’universalità delle culture» (Bollati-Boringhieri, 2001); «L’invenzione dell’etnia» (Meltemi, 2008); «Contro il primitivismo» (Bollati-Boringhieri, 2012). I suoi ultimi libri, editi dalle Editions Lignes, sono «L’Anthropologue et la politique» (2011), «L’Ethnicisation de la France» (2012) e «Les Nouveaux Rouges-Bruns» (2014) In apertura di quest’ultimo lavoro, Amselle scrive: «questo libro nasce da un sentimento di urgenza, di paura davanti all’avanzare di una destra dei valori. (…) Questa configurazione rosso-bruna ha questo d’inquietante: tende a propagarsi al paesaggio intellettuale nel suo insieme, perché tende a riempire un vuoto lasciato dalla morte delle ideologie, in particolare quella che formava il cuore della sinistra, il marxismo».
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