La vulgata della scuola del ventunesimo secolo prevede: classi “agili”, con studenti che guardano contenuti online e ne discutono poi tra di loro. Insegnanti “leggeri”, con il ruolo di “facilitatori” delle suddette discussioni tra gli studenti. Scomparsa progressiva della lezione frontale, e quindi della preparazione della lezione da parte degli insegnanti. Rimpiazzo dello studio con una forma ludica di interazione con vari tipi di interfacce, alcune delle quali ancora umane, ma sempre di più di tipo digitale (queste ultime non hanno problemi caratteriali, non scioperano, ecc.). Verifiche continue sia dello studente ma soprattutto dell’insegnante su parametri “oggettivi”. Comunicazione aperta con la famiglia, grazie a webcam che permettono ai genitori in pausa caffè di vedere che cosa si sta facendo in classe in un momento a caso.
Per chi non se ne fosse accorto, c’è una logica profonda che sottende questa visione: si tratta di depotenziare l’insegnante, di spiarne e soppesarne le più infime mosse, e all’orizzonte di sostituirlo. Con cosa? Con qualcosa di meno tornito e dal profilo incerto, ma che grosso modo si configura come un tecnico di classe, dalla formazione altrettanto leggera di quella che dovrebbe impartire, la quale sarà affidata a delle società di formazione e di impacchettamento di semplici contenuti, e che non prevederà poco più che la capacità di premere i bottoni giusti su gadget digitali che ovviamente cambieranno di anno in anno. Non bisogna scavare troppo a fondo per capire che cosa bolle in pentola: lo spostamento di ingenti risorse economiche che oggi vanno a coprire i costi di personale della scuola e che domani saranno oggetto di una spartizione tra vari attori esterni, dai produttori di gadget alle società di formazione.
Ma c’è un problema insidioso per questa narrazione; che i ministri non conniventi ne prendano atto. La fine della necessità delle competenze pedagogiche è una spia della fine della necessità delle competenze in genere. Se non servono competenze per insegnare, non è nemmeno chiaro perché insegnare alcunché. Come mai? La crescita tecnologica prefigura un mondo senza competenze proprio perché le azioni cognitivamente complesse e le decisioni vengono delegate alle macchine. Quanto più sono complesse le azioni e le decisioni che si ritiene di poter delegare alle macchine, tanto meno necessari sono gli esseri umani che finora prendevano queste decisioni e compivano queste azioni. E quindi non serve insegnar loro alcunché, dato che dovranno soltanto saper premere qualche bottone. La fine annunciata della vecchia scuola è la fine annunciata della scuola: non perché gli insegnanti non siano adeguati ai nuovi saperi, ma perché i nuovi saperi da insegnare non ci sono proprio.
D’accordo, forse è la vulgata ad essere completamente fuorviante. Di recente Yann LeCun, direttore del gruppo di Intelligenza Artificiale di Facebook e il titolare per il 2015-2016 della Cattedra Annuale di Informatica e Scienze Digitali del Collège de France, specialista di quel deep learning che permetterà per l’appunto alle macchine di prendere decisioni via via migliori di quelle dei cervelli umani, ha invitato i geek del futuro a studiare i solidi fondamenti di matematica e fisica, invece di perder tempo con la programmazione di gadget che invecchiano in un batter d’occhio o il design di siti web. «È essenziale – dice – apprendere dei saperi che hanno una vera perennità e che non rischiano di passare di moda». Vedremo; ma la sopravvivenza e la vitalità dei vecchi saperi non sembra compatibile con l’abbagliante immagine, diciamo pure l’abbaglio, della scuola leggera del futuro.
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