Nostalgia. Gusto per la citazione. Tendenza alla riedizione. Come i due casi automobilistici più di successo degli ultimi anni: il rilancio della 500, emblema di stile e fenomeno di costume; il restyling della Mini, supertecnologica, ma con i paradigmi estetici di sempre.
Forme rassicuranti, riconoscibili. Come lo stile vintage che invade le passerelle, insieme ai più carismatici testimonial del grey power: da Karl Lagerfeld a Vivienne Westwood. Come “Back to the Future”, uno sguardo al passato che si rivela tra le più sorprendenti sezioni della fiera d’arte contemporanea Artissima. Come il ritorno al comfort food, sbollita la febbre da chef dall’inventiva esasperata. Come la musica: esploso il gusto del vinile, e persino della musicassetta, la disco music è uscita dalla sfera dei nati nei Settanta, per conquistare i più giovani. E Raphael Gualazzi, ne “L’estate di John Wayne”, sigilla: «Torneranno i figli delle stelle, Non scoppieranno guerre, Le facce un po’ annoiate su riviste patinate, Ed anche John Travolta per ballare con te».
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Avanti tutta, verso il passato
Dall’America di Trump alla Turchia di Erdogan, dalla Brexit all’est Europa: ci si rinchiude nei valori identitari, si cercano le radici ancestrali . Dagli anni Novanta in poi abbiamo iniziato a galleggiare. Riusciamo forse a consolidare il presente, ma non a immaginare il domani
Il nuovo? Somiglia sempre di più al vecchio. E lo è veramente: non solo come nostalgia di uno Zeitgeist meno incerto del presente. Ma come autentica rivalutazione del passato: riciclo di linguaggi e di forme più densi, più ricchi, più significativi alla comprensione del mondo. Un’inclinazione in aperta rottura con l’idea stessa di modernità. Che rivendica, anzi, il diritto di scovare nel passato gli spunti per immaginare il futuro.
«A un secolo da “Il tramonto dell’Occidente” previsto da Oswald Splenger, stiamo assistendo al declino della civiltà occidentale. Logico che in circolazione di nuovo ci sia ben poco», conferma Vanni Codeluppi, che insegna Sociologia dei processi culturali allo Iulm di Milano: «La nascita del nuovo è legata a fattori precisi: primo fra tutti al benessere economico, come dimostra il fermento degli anni Sessanta e Ottanta. Non sottovalutiamo l’invecchiamento della popolazione, che riduce l’energia creativa. La frammentazione sociale gioca un ruolo significativo. E il clima di guerra: la paura contrae l’euforia psicologia, necessaria alle novità».
Se il terrore è alle porte, «meglio lasciarsi andare alla danza dell’eterno ritorno», spiega la filosofa Donatella Di Cesare nel saggio “Immaginare il futuro”, a cura di Carlo Bordoni (Mimesis): «Lo sguardo si muta in ricordo del passato, mentre in quella nostalgia viene meno l’adesione al vivere». L’esatto contrario di quel clima favorevole alle innovazioni, che ha scandito il pensiero dei teorici delle classi creative: il nuovo nasce laddove si concentrano talento, tolleranza e tecnologia, preconizzava il sociologo Richard Florida; Eric Weiner lo ha ribadito ne “La geografia del genio” (Bompiani).
Nel nuovo che non verrà, le visioni più ottimistiche si rintracciano nel passato: nel fantasy classico, a partire dalle terre immaginarie di J.R.R.Tolkien di cui si festeggiano gli 80 anni de “Lo Hobbit” e l’uscita di un romanzo inedito (“Beren and Lúthien”, Harper Collins); nel romanticismo old style: compie una evoluzione la Austenmania, il culto della scrittrice Jane: solo alla fine dell’anno una decina i libri a lei dedicati. E lo stesso vale per il design: si rievocano “I migliori oggetti della nostra vita” (Marta Boneschi, il Mulino) che hanno rivoluzionato abitudini materiali e mentali, dalla lavatrice alla televisione e che, ancora avvolti da una scia di entusiasmo, condizionano l’estetica attuale. Revival, come quelli che si susseguono in tv: se dopo 40 anni dalla serie “Radici” è tornato il remake della saga, 25 anni dopo l’omicidio di Laura Palmer ritorna “Twin Peaks” in nuovi episodi diretti dallo stesso David Lynch. Intanto, sui palcoscenici l’effetto déjà vu non è mai stato così forte: da “Rocky Horror Show” al “Mago di Oz” in Italia, fino agli immarcescibili “Mamma mia”, “Les Miserables”, “Il fantasma dell’opera” sulle platee internazionali.
«I momenti di innovazione sono coincisi con quelli di massiccia scolarizzazione, quando conoscenze diffuse hanno fatto da stimolo a produzioni originali», nota Codeluppi: «Il livello culturale delle persone, negli ultimi dieci anni, a causa di politiche che hanno penalizzato la formazione, si è abbassato. Questo ha delle conseguenze sulla capacità di originare novità. La creatività si è fermata. A meno di non guardare ad altre aree del mondo, come l’Asia. O di non identificare il nuovo con la tecnologia, che va sempre avanti».
Ma anche su quel fronte avanza qualche dubbio. Non è forse il 2007, non il 2017, l’anno di Twitter e di Facebook, quello in cui è stato immaginato Airbnb, il Kindle è stato lanciato sul mercato, Google ha presentato Android, gli smartphone sono diventati di massa, provoca il columnist del New York Times Thomas L. Friedman con “Thank you for being Late: an optimist’s Guide to thriving in the age of accelerations”?
Ma l’esempio più evidente di ritorno al passato è l’arte, assicura Codeluppi: «Tutto ciò che sembra nuovo è solo marketing: Cattelan, Damien Hirst...».
È la fine dell’avanguardia: Cesare Brandi l’aveva prevista nel 1949. Oggi sono in molti a sostenere che per rintracciare espressioni di rivolta e linguaggi di rottura si debba risalire agli anni Settanta.
«La rivoluzione non si fa con le idee nuove, ma l’insurrezione è propria della memoria», sostiene il critico e curatore Marco Scotini, direttore della Nuova Accademia di Belle Arti di Milano, tra gli esperti più in prima linea nell’archeologia del contemporaneo: «Il nuovo è nella consapevolezza che il passato sia più attuale del presente e più incerto del futuro. È una rottura con l’idea di modernità iniziata negli anni Settanta e proseguita con la caduta del muro di Berlino. Il futuro aveva un senso preciso inserito nella dimensione della modernità: il presente come incunabolo del futuro; il futuro la sola prospettiva che contava. Questa idealizzazione ha cominciato a mostrare la sua fragilità. Abbiamo scoperto che il futuro è ovunque, anche nel passato».
È il concetto di tempo a uscirne rivoluzionato: artefatto culturale che non ha più ragione d’essere. Centrale diventa, invece, la memoria.
«Chi sono gli artisti più nuovi? Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi: filmando il passato dimostrano che il futuro è anche lì. Lavorare sugli archivi non è un’operazione nostalgica: è anzi un’idea che guarda avanti: si fanno sopravvivere le cose che meritano di essere preservate, perché contengono le risposte che stiamo cercando. Il futuro, in termini di modernità, non mi interessa. La vera sfida è riscrivere la storia».
Il filosofo Remo Bodei l’ha detto in altri termini: «Il peso del passato, che fungeva da zavorra stabilizzatrice nelle società tradizionali, è diventato leggero; lo slancio verso il futuro, che aveva animato e orientato le società a partire dal Settecento, è diventato debole». Gli effetti? Contagiosi. Pervasivi persino del mondo del lavoro: non a caso, in uno scenario di lavoro impoverito, Adriano Olivetti e la sua idea di impresa sociale, con al centro l’individuo e la sua crescita culturale, non sono mai stati così rievocati e studiati come oggi.
«Il nuovo a volte è invisibile. La nuova architettura sta nascendo all’incrocio tra mondo digitale e mondo fisico, bits & bricks. Così il nuovo può significare un diverso modo di usare e vivere lo spazio, grazie alle tecnologie digitali», interviene l’architetto e ingegnere Carlo Ratti, direttore del Senseable City Lab del Mit di Boston: «Internet si sta trasformando nell’Internet delle cose. Sarà l’era della “tecnologia calma” descritta da Mark Weiser, così radicata nello spazio da potere recedere sullo sfondo delle nostre vite. Ed è in quei progetti che si annidano le novità».
L’architettura, dunque, va oltre la spettacolarizzazione verso la quale si era orientata un’intera generazione di archistar: «Per gran parte del Ventesimo secolo ha dominato il paradigma dell’architetto-eroe, che lottava per imporre al mondo la sua verità, con risultati spesso opinabili», conferma Ratti: «Oggi sta emergendo un paradigma nuovo, quello dell’“open source”: progetti in codice aperto, da portare avanti con il contributo di un team multidisciplinare e degli utenti finali, aprendo la porta a un architetto “corale”».
Capacità di ascolto. Attenzione all’impatto sociale del costruire, come predica il curatore dell’ultima Biennale di Architettura di Venezia Alejando Aravena, Pritzker Prize a partire dall’edilizia per i più poveri in Sudamerica.
«Relazionarsi con il “vecchio” è il dovere di ogni architetto», continua Ratti: «Il passato deve essere il punto di partenza. La domanda è “come” intervenire: dobbiamo abbandonare l’idea di “obliterazione”, portata avanti con sicumera dal movimento moderno che ha lasciato lo Zen e il Corviale, e quella di “citazione”, cara al post-moderno, che fingendo di riprendere il passato lo ha volgarizzato e svuotato. Io credo nell’“interpretazione”: capire le istanze del passato e riproporle in chiave contemporanea».
«Bisogna sforzarsi di pensare che nuovo non significa produrre necessariamente linguaggi di rottura», interviene Maria Luisa Frisa, critico di moda e direttore del Corso di laurea in Design della moda e Arti multimediali alla Iuav di Venezia: «Le avanguardie del Novecento restano punti di riferimento. La moda, però, è un sistema che ha sempre cambiato, lavorando su stessa. E continua a guardare avanti. Anche di fronte ad autori come Comme des Garçon o Margiela, che hanno introdotto linguaggi inediti come orli scuciti, materiali ruvidi, asimmetrici, si è preferito parlare non di nuovo, ma di contromoda, di dissonanze».
E il camouflage che impazza sulle passerelle? Le linee anni Sessanta, le fantasia anni Ottanta che ritornano protagoniste? «Non vuol dire essere passatisti o avere nostalgia. Ma non resistere alla pulsione del collezionismo, della copia, del furto. In un’età ibrida qual è l’attuale, con un mondo come quello asiatico dove la parola “nuovo” ha un altro significato, dobbiamo accettare un concetto di nuovo radicalmente cambiato. Come la bellezza». Scandagliarlo vuol dire affondare le mani in un magma complesso. E in un presagio: che il nuovo farà uno scatto avanti quando mondo orientale e occidentale cominceranno sul serio a dialogare. «Sarà la commistione tra culture diverse a far affiorare forme nuove», conferma Codeluppi: «I grandi processi migratori portano le culture a intrecciarsi, ma finora in Occidente, esclusa qualche influenza nella sfera dei consumi, non è accaduto granché. Il nuovo nascerà da quell’incontro».
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