I temi della IX edizione del festival Leggendo Metropolitano di Cagliari (8-11 giugno) sono la memoria e l’oblio: due concetti fondamentali per la letteratura ma anche per la scienza. Al festival è intervenuta anche la neurobiologa rumeno-tedesca Hannah Monyer, direttrice del dipartimento di neurologia clinica di Heidelberg. Per le sue scoperte, a Monyer sono stati assegnati riconoscimenti importanti, come il Premio Leibnitz nel 2004. La sua ricerca verte sui processi biochimici che regolano l’apprendimento, la plasticità cerebrale e la memoria. Di memoria e genio Monyer se ne intende: oltre che scienziata brillante, è una pianista esperta e poliglotta. In laboratorio, collaboratori di mezzo mondo si rivolgono a lei nella propria lingua. In Italia ha appena pubblicato un libro, scritto con il filosofo Martin Gassman, intitolato La memoria geniale e edito da Rizzoli.
Dalle sue ricerche, emerge un’idea della memoria piuttosto originale: non un archivio di dati, ma uno strumento di pianificazione del futuro…
Sin dai tempi di Aristotele si è pensato che la memoria non fosse solo un magazzino di informazioni. E oggi pensiamo che ogni qual volta un ricordo viene portato alla coscienza, esso viene ricostruito secondo la sua utilità futura. Il contributo dei ricercatori consiste nell’ottenere delle evidenze sperimentali di questo processo.
Sin dai tempi di Aristotele si è pensato che la memoria non fosse solo un magazzino di informazioni. E oggi pensiamo che ogni qual volta un ricordo viene portato alla coscienza, esso viene ricostruito secondo la sua utilità futura. Il contributo dei ricercatori consiste nell’ottenere delle evidenze sperimentali di questo processo.
Si può quindi dimostrare a livello biochimico?
Sì, sappiamo che quando un ricordo viene rievocato si riattivano gli stessi processi biochimici che hanno luogo durante l’apprendimento. Si rafforzano o si indeboliscono determinati collegamenti sinaptici, e dopo ogni rievocazione il ricordo è cambiato. È una sorta di apprendimento aggiuntivo. Anche lo studio del sonno lo conferma. In esperimenti compiuti sui topi, è stato osservato che durante il sonno vengono consolidati i ricordi delle esperienze vissute. Ma non tutte le informazioni vengono «registrate» nello stesso modo. Si consolidano solo i ricordi importanti, quelli che ci aiutano davvero ad andare avanti nella vita e che potrebbe rivelarsi utile in futuro. Il resto viene scartato.
Sì, sappiamo che quando un ricordo viene rievocato si riattivano gli stessi processi biochimici che hanno luogo durante l’apprendimento. Si rafforzano o si indeboliscono determinati collegamenti sinaptici, e dopo ogni rievocazione il ricordo è cambiato. È una sorta di apprendimento aggiuntivo. Anche lo studio del sonno lo conferma. In esperimenti compiuti sui topi, è stato osservato che durante il sonno vengono consolidati i ricordi delle esperienze vissute. Ma non tutte le informazioni vengono «registrate» nello stesso modo. Si consolidano solo i ricordi importanti, quelli che ci aiutano davvero ad andare avanti nella vita e che potrebbe rivelarsi utile in futuro. Il resto viene scartato.
Non è fantascienza, siamo già riusciti a farlo negli animali. Nel 2012, Susumu Tonegawa (premio Nobel per la medicina nel 1987) è riuscito a generare un ricordo sintetico in un esperimento sui topi grazie all’optogenetica, cioè la tecnica di attivare o disattivare i geni con segnali luminosi. Tonegawa ha attivato i neuroni associati al ricordo di un ambiente mentre, in un secondo ambiente, i topolini ricevevano una piccola scossa elettrica. I topolini hanno associato il ricordo negativo al primo ambiente, anche se non presentava minacce reali. È un meccanismo che si attiva pure nelle fobie.
Una possibilità inquietante…
Certo, ma anche utile, perché potrebbe permettere di curare le persone sofferenti dopo un’esperienza traumatica di cui non riescono a liberarsi. Ovviamente, negli esperimenti sui topi si inducono stimoli e ricordi molto specifici e semplici. Più il segnale diventa complesso, più è difficile influenzarlo. Ma le implicazioni bioetiche sono molto rilevanti in ogni caso, e per questo è necessario che vi sia un dibattito continuo nella società sulle ricerche nel campo delle neuroscienze.
Certo, ma anche utile, perché potrebbe permettere di curare le persone sofferenti dopo un’esperienza traumatica di cui non riescono a liberarsi. Ovviamente, negli esperimenti sui topi si inducono stimoli e ricordi molto specifici e semplici. Più il segnale diventa complesso, più è difficile influenzarlo. Ma le implicazioni bioetiche sono molto rilevanti in ogni caso, e per questo è necessario che vi sia un dibattito continuo nella società sulle ricerche nel campo delle neuroscienze.
Potremo frenare anche l’invecchiamento del cervello?
Il cervello invecchia come ogni altro organo ed è un processo che non può essere invertito. Però, lo si può rallentare con l’esercizio, uno stile di vita sano e, soprattutto, la motivazione a stimolare l’ambiente esterno e esserne stimolati. Ci sono poi forme di demenza, come il morbo di Alzheimer, di cui sappiamo ancora troppo poco, se non che solo il 2% dei casi ha origine genetica.
Il cervello invecchia come ogni altro organo ed è un processo che non può essere invertito. Però, lo si può rallentare con l’esercizio, uno stile di vita sano e, soprattutto, la motivazione a stimolare l’ambiente esterno e esserne stimolati. Ci sono poi forme di demenza, come il morbo di Alzheimer, di cui sappiamo ancora troppo poco, se non che solo il 2% dei casi ha origine genetica.
Invecchiamento, ricordi artificiali, oblio a comando: le ricerche nel campo delle neuroscienze sono molto ambiziose. Gli strumenti a disposizione dei ricercatori, come l’imaging funzionale, sono all’altezza delle sfide?
L’imaging funzionale (la rappresentazione per immagini delle regioni di attivazione del cervello attraverso la risonanza magnetica, ndr.), è una tecnica sperimentale molto di moda. Ogni giorno vengono pubblicate nuove ricerche scientifiche basate su questa metodologia. L’impatto scientifico reale di queste ricerche è spesso esagerato. Il neuro-imaging, secondo me, rappresenta una sorta di «neo-frenologia». I frenologi dell’Ottocento credevano che il cervello fosse un aggregato di organi mentali, cioè che ciascuna sua porzione corrispondesse a una precisa funzione. Così, dallo studio metrico del cranio intendevano risalire alla personalità dell’individuo.
In realtà, ogni azione del cervello è complessa e stimola contemporaneamente un gran numero di neuroni diversi e con una grande variabilità temporale. Il neuro-imaging non ha la risoluzione necessaria per indagare questi processi. Perciò, per me, ha soprattutto una funzione descrittiva.
L’imaging funzionale (la rappresentazione per immagini delle regioni di attivazione del cervello attraverso la risonanza magnetica, ndr.), è una tecnica sperimentale molto di moda. Ogni giorno vengono pubblicate nuove ricerche scientifiche basate su questa metodologia. L’impatto scientifico reale di queste ricerche è spesso esagerato. Il neuro-imaging, secondo me, rappresenta una sorta di «neo-frenologia». I frenologi dell’Ottocento credevano che il cervello fosse un aggregato di organi mentali, cioè che ciascuna sua porzione corrispondesse a una precisa funzione. Così, dallo studio metrico del cranio intendevano risalire alla personalità dell’individuo.
In realtà, ogni azione del cervello è complessa e stimola contemporaneamente un gran numero di neuroni diversi e con una grande variabilità temporale. Il neuro-imaging non ha la risoluzione necessaria per indagare questi processi. Perciò, per me, ha soprattutto una funzione descrittiva.
I modelli animali, quasi sempre topi, sono più utili?
Negli esperimenti sui modelli animali possiamo avere informazioni molto più dettagliate, con risoluzione temporale dell’ordine dei microsecondi. Ma si tratta di esperimenti ancora molto invasivi, che implicano l’inserimento di contatti elettrici nel cervello degli animali o manipolazioni genetiche. Perciò, non è pensabile che questi esperimenti possano ripetersi sull’uomo. Siamo dunque costretti a studiare gli animali, cercando analogie con quanto osserviamo negli esseri umani. Ma il processo di estrapolazione richiede grande cautela. Da un punto di vista genetico, topi e esseri umani hanno molto in comune. Ma milioni di anni di evoluzione hanno fatto sì che gli stessi geni svolgano ruoli del tutto diversi nell’uomo o nei topi. Perciò, spesso è possibile estendere una scoperta realizzata sui modelli animali all’uomo.
Negli esperimenti sui modelli animali possiamo avere informazioni molto più dettagliate, con risoluzione temporale dell’ordine dei microsecondi. Ma si tratta di esperimenti ancora molto invasivi, che implicano l’inserimento di contatti elettrici nel cervello degli animali o manipolazioni genetiche. Perciò, non è pensabile che questi esperimenti possano ripetersi sull’uomo. Siamo dunque costretti a studiare gli animali, cercando analogie con quanto osserviamo negli esseri umani. Ma il processo di estrapolazione richiede grande cautela. Da un punto di vista genetico, topi e esseri umani hanno molto in comune. Ma milioni di anni di evoluzione hanno fatto sì che gli stessi geni svolgano ruoli del tutto diversi nell’uomo o nei topi. Perciò, spesso è possibile estendere una scoperta realizzata sui modelli animali all’uomo.
Oggi le neuroscienze sono considerate una nuova forma di Big Science. Gli Stati Uniti investono circa 400 milioni di dollari l’anno per la Brain Initiative lanciata da Obama. L’Unione Europea ha stanziato oltre un miliardo di euro per lo Human Brain Project. Investimenti così importanti sono giustificati?
Le grandi promesse delle neuroscienze riguardano le potenziali applicazioni terapeutiche che se ne possono trarre e questo attira investimenti. Spesso però le promesse sono eccessive o richiedono molti anni prima di avere ricadute reali. È fondamentale che l’opinione pubblica sia consapevole delle possibilità delle neuroscienze, ma anche che il progresso sarà lento e che occorrono ancora anni di sperimentazioni e fallimenti prima di ottenere benefici reali. Investire molte risorse su un unico progetto, come avviene in Europa con lo Human Brain Project, potrebbe essere un errore. Peraltro, il progetto mira a realizzare una simulazione computerizzata del cervello umano: ho qualche dubbio che realizzare una sua copia significhi davvero comprenderlo. Sarebbe meglio, come abbiamo scritto nel libro, concentrarsi su problemi singoli e dedicarsi al coordinamento di tanti piccoli progetti ambiziosi.
Le grandi promesse delle neuroscienze riguardano le potenziali applicazioni terapeutiche che se ne possono trarre e questo attira investimenti. Spesso però le promesse sono eccessive o richiedono molti anni prima di avere ricadute reali. È fondamentale che l’opinione pubblica sia consapevole delle possibilità delle neuroscienze, ma anche che il progresso sarà lento e che occorrono ancora anni di sperimentazioni e fallimenti prima di ottenere benefici reali. Investire molte risorse su un unico progetto, come avviene in Europa con lo Human Brain Project, potrebbe essere un errore. Peraltro, il progetto mira a realizzare una simulazione computerizzata del cervello umano: ho qualche dubbio che realizzare una sua copia significhi davvero comprenderlo. Sarebbe meglio, come abbiamo scritto nel libro, concentrarsi su problemi singoli e dedicarsi al coordinamento di tanti piccoli progetti ambiziosi.
Ha appena incontrato gli alunni di una scuola di Cagliari. Le scoperte sull’apprendimento e sulla memoria possono essere utili per migliorare i nostri sistemi di istruzione?
La ricerca conferma che le sinapsi del cervello di un bambino sono predisposte a imparare cose nuove e che gli anni della scuola sono davvero preziosi. La ricerca, poi, dimostra l’importanza delle condizioni dell’apprendimento: un nuovo pezzo di pianoforte si impara meglio se non si è stanchi, se ci si diverte e se si è motivati a farlo. Inutile ripetere cento volte lo stesso brano: meglio ripeterlo qualche volta e ritornarci dopo un po’. La ricerca offre la conferma scientifica a quello che un buon insegnante sapeva già un secolo fa.
La ricerca conferma che le sinapsi del cervello di un bambino sono predisposte a imparare cose nuove e che gli anni della scuola sono davvero preziosi. La ricerca, poi, dimostra l’importanza delle condizioni dell’apprendimento: un nuovo pezzo di pianoforte si impara meglio se non si è stanchi, se ci si diverte e se si è motivati a farlo. Inutile ripetere cento volte lo stesso brano: meglio ripeterlo qualche volta e ritornarci dopo un po’. La ricerca offre la conferma scientifica a quello che un buon insegnante sapeva già un secolo fa.
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