Sfilano oggi a New York, nella tradizionale Parata del Columbus Day dedicata a Cristoforo Colombo, gli scrittori italoamericani.
Quest’anno la marcia è dedicata a loro, autori che, originari del nostro Paese, hanno celebrato cultura e lettere americane. In testa ci saranno Gay Talese, padre del New Journalism che ha rivoluzionato il New York Times, Philip Caputo, marine decorato in Vietnam, premio Pulitzer e firma di uno dei libri più struggenti sulla guerra, «A rumor of war», la pena dei combattimenti e il razzismo greve contro gli italiani insultati come Wop, clandestini. Ci sarà il governatore Andrew Cuomo, figlio del Mario Cuomo che in un discorso bellissimo del 1984 sembrò il nuovo Kennedy. E proprio John Kennedy scelse Colombo ad immagine del coraggio di scoprire nuovi mondi. Insieme a Lorenzo Carcaterra, Danny Aiello, David Baldacci, Kim Addonizio, Adriana Trigiani, Maria Bartiromo sono stato invitato a sfilare e, dopo qualche riflessione, la mia adesione è apparsa sul manifesto del «New York Times»: malgrado le minacce di pioggia, sarò con i fratelli e sorelle italoamericani a festeggiare la nostra tradizione, forza che ha reso una lingua del passato familiare nel futuro.
Ho accettato perché non sono giorni facili per Colombo. Il sindaco di New York Bill DeBlasio lo ha incluso nella lista nera dei personaggi le cui statue potrebbero essere abbattute, in condanna per crimini contro i diritti umani. Perfino la colonna di Columbus Circle, popolare rotonda sul Central Park, è a rischio, mentre mezzibusti dell’uomo che, per i sussidiari di un tempo «scoprì l’America», sono decapitati e vandalizzati. L’accusa è di aver partecipato al genocidio delle popolazioni indigene, di essere stato colonizzatore, imperialista, capo schiavista tra stupri di massa ed epidemie. L’arrivo degli europei nelle Americhe costò davvero immensi sacrifici a chi vi era nato. Ma non possiamo, del passato, scegliere Bene e Male come canditi in pasticceria. La stragrande maggioranza di chi in America è emigrato e ha poi vissuto non è criminale di guerra, né ha posseduto schiavi, ma ha amato Colombo.
I nostri connazionali hanno sputato sangue in fabbrica e in miniera, soffrendo razzismo e discriminazioni per un tozzo di pane e un futuro migliore per la famiglia. Colombo non è un generale sudista le cui gesta vengono celebrate dai razzisti di oggi, seminando dunque nuova discordia. Era un uomo con i limiti aspri dei suoi tempi, come Aristotele che considerava «macchine» gli schiavi, Mozart che componeva mentre la sorella, dotata di altrettanto talento, non poteva farlo, Roosevelt che, liberando l’Europa faceva internare negli Usa innocenti cittadini giapponesi. Giudicare il «mondo grande e terribile» che ci sta alle spalle - così lo chiamava Antonio Gramsci - dalla nostra comoda tana digitale è vile.
Come giudicheranno noi coloro che verranno? Quante nostre statue rovesceranno i nipoti, leggendo di come abbiamo trattato i profughi nel Mediterraneo e le donne povere ovunque? Sotto la pioggia di New York camminerò dunque oggi, mandando un selfie ai miei due figli italoamericani, perché le speranze della storia fioriscano sulle spine sanguinose, senza che le cesoie della censura acida le recidano per sempre. E per ricordare il giovane Colombo che si mette audace in mare, da solo, contro il parere cupo dei saggi potenti.
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