C'era una volta - e stiamo parlando di un bel po’ di tempo fa - l’egemonia culturale della sinistra. Poi, con i famosi-famigerati anni Ottanta, a colpi di tv, gossip, veline, tronisti, vip (o aspiranti tali), chirurgia estetica e reality, siamo entrati nell’Italia dell’egemonia sottoculturale.
La celebre categoria di Antonio Gramsci, insomma, riverniciata in salsa postmoderna. Un contrappasso da rigirarsi nella tomba per il grande filosofo marxista novecentesco: non per nulla, a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta, il gramscismo ha conosciuto una stagione di rinnovata popolarità a destra, ed è stato perfino tinto pesantemente di nero dalla galassia europea della nouvelle droite e affini.
Dai teorici neocon statunitensi ad Alain de Benoist, fino al recentemente dimissionario dalla Casa Bianca Steve Bannon, nei decenni passati si è verificata una vera e propria corsa all’utilizzo (e al saccheggio) delle tesi del pensatore comunista, dotate di una validità universale e trasversale, e che erano invece state sostanzialmente consegnate all’oblio da una larga fetta della sinistra. Ma la “Specificità italiana” - e, infatti, la citazione di Gramsci era entrata perfino nelle dichiarazioni di figure assai vicine al patron di Fininvest/Mediaset, come Sandro Bondi e Maria Stella Gelmini - ha riguardato l’inesausto lavoro di costruzione di un primato sottoculturale dei prodotti della televisione commerciale che, quando vuole (e serve per ragioni di ascolto), sa essere trash tv in maniera insuperabile.
Dai rotocalchi di Alfonso Signorini ai programmi di Maria De Filippi, l’universo simbolico costruito dalla tv privata, che si è sostituita al servizio pubblico (la “neotelevisione”, come la etichettò Umberto Eco), e dalla stampa rosa e scandalistica ha tirato la volata al berlusconismo politico e al centrodestra capitanato dal “Cav”. E, così, dopo l’egemonia di mercato è arrivata anche quella culturale, e più precisamente sottoculturale. Una “pedagogia antipedagogica” fondata sul divertimento, l’edonismo e il flusso continuo e incessante delle immagini, che ha riscritto anche i codici e le “tavole della legge” di un’informazione convertitasi in vari casi in infotainment (ove l’intrattenimento prevale largamente sull’informazione) e, da qualche tempo a questa parte, direttamente in entertation con l’affermarsi della transtelevisione del superamento dei generi. Un ventaglio di soft media che ha trovato nella tv generalista del disimpegno e delle avvisaglie della (supposta) disintermediazione - e che si sarebbe giustappunto fatta in seguito anche megafono dell’antipolitica - il proprio campione, e un irrefrenabile motore propulsivo.
Oggi, nel passaggio dalla centralità del piccolo schermo tv alla società degli schermi e dell’estrema diversificazione della dieta mediale, non si può non constatare come, da molti punti di vista, il berlusconismo socioculturale abbia definitivamente vinto (e pure quello politico non se la passa affatto male, anzi). Perché l’Italia fattasi compiutamente postmoderna negli anni del riflusso ha visto l’assoluta e indiscutibile assimilazione del Paese già democristiano e comunista al paradigma dell’americanizzazione, che ha portato con sé e imposto
i processi di mediatizzazione, spettacolarizzazione della politica e personalizzazione. Un irresistibile mix di politica pop e “pipolizzazione”, per cui l’uomo e la donna politica esibiscono - anche loro malgrado - il corpo e la sfera privata: è la stagione, che sembra destinata a non finire mai, del politico come celebrità (tributaria del sistema dei media e dell’industria dell’immaginario di massa).
Un’eredità duratura, e una filosofia comunicativa che si è radicata, dal Matteo Renzi che indossò il “chiodo” in stile Fonzie di Happy Days in un servizio fotografico per il settimanale Chi nel 2013 (quando era ancora sindaco di Firenze), e
ha frequentato trasmissioni come Domenica Live di Barbara D’Urso (sulla base del criterio consensus-oriented condensato nello slogan «Voglio parlare a tutti») all’“altro Matteo” (Salvini) desnudo, con indosso unicamente una cravatta “verde Lega” sulla copertina di Oggi (nel 2014), fino alle coppie felici e ridenti dei pentastellati Giancarlo Cancelleri e Luigi Di Maio (con contestuali annunci matrimoniali) sulle pagine del medesimo rotocalco. La scarsa dimestichezza con la storia e la cultura generale, ennesimo effetto dell’egemonia sottoculturale che
ha liquidato i libri come inutili e controproducenti, risulta trasversale quanto l’arco costituzionale, ahinoi.
Alcuni tratti del renzismo, del “leghismo 2.0” e del grillismo non sarebbero stati concepibili senza la fase seminale e rifondativa della politica come immagine espressa dal berlusconismo.
E anche ora che si è passati dalla tv generalista ai social network e al Web, tra troll e camere dell’eco, le rinnovate egemonie sottoculturali affiancano aspetti propri della media logic del pianeta internettiano ad altri che derivano direttamente dalla stagione precedente - e, in tal modo, la “tele-realtà” si fonde totalmente con la “realtà virtuale”. Ci sono le continuità, come l’onnipresente democrazia del pubblico e dell’audience e la caricatura della “democrazia competitiva” involuta nella direzione di una politica strutturata come casting.
E ci sono le innovazioni digitali, a partire dalla disinformazione virale delle fake news. Già, perché l’egemonia sottoculturale, che ha sfondato ormai quasi un trentennio or sono,
è come l’araba fenice, e sa risorgere immancabilmente
dalle proprie ceneri. E anche negli anni dell’onnipotenza
della Rete gode di ottima salute: è viva, vivissima,
e lotta contro di noi.
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