Pace e guerre – Queste notizie si trovano in uno straordinario e lungo articolo pubblicato sul Guardian (di cui esiste anche il podcast, poiché è stato concepito come documento radiofonico) a firma di Pankaj Mishra, un saggista e romanziere indiano. Straordinario perché, in un momento di ricordi, celebrazioni e rievocazioni storiche per il centenario della Grande Guerra (come il libro su Caporetto degli autori di questo blog, che resterà in edicola fino al 24 dicembre, e che potete ancora ordinare), invita a considerare il conflitto di un secolo fa da un singolare punto di vista: quello dell’imperialismo coloniale. La tesi, che appare convincente o comunque da considerare, è che il lungo periodo di pace europea tra il 1870 e il 1914 (quella che noi ancora chiamiamo Belle Epoque ma che, fa notare la storica Barbara Tuchmannel suo libro Tramonto di un’epoca, fu definita tale solo negli scritti posteriori al 1918 in segno di rimpianto e ricordo di un mondo perduto per sempre) fu conservato soltanto grazie all’esportazione dei conflitti tra le nazioni europee in Africa e in Asia sotto forma di competizione tra imperi coloniali a scapito delle popolazioni locali. Pace tra le nazioni del Vecchio continente ma anche pace sociale all’interno di esse, come fece notare Cecil Rhodes, il grande colonialista britannico conquistatore e fondatore della Rhodesia del Sud (l’attuale Zimbabwe). Parlando nel 1895 a un gruppo di disoccupati londinesi in tumulto, disse che l’imperialismo era la «soluzione ai problemi sociali: per evitare ai 40 milioni di abitanti del Regno Unito una sanguinosa guerra civile, noi colonialisti dobbiamo conquistare nuove terre per sistemare la popolazione in eccesso e ottenere nuovi mercati per le merci prodotte nelle fabbriche e nelle miniere».
Supremazia e razzismo – Ma c’è di più, sostiene sempre Pankaj Mishra: le conquiste in quello che ancora conosciamo come Terzo mondo furono condotte in nome di una supremazia bianca, profondamente razzista e con connotati apertamente genocidari. Tanto che i massacri sia della Prima guerra mondiale che della Seconda non furono che il «ritorno a casa», sotto forma di nemesi storica, di tecniche brutali di dominio e di disprezzo omicida per il «diverso> e «l’inferiore» che raggiunsero con l’Olocausto la loro massima e perversa espressione. E, sottolinea di nuovo lo scrittore indiano, non è finita: anche la lotta al terrorismo islamico, con la sospensione di molte garanzie democratiche nelle società occidentali, il ricorso alla tortura (le extraordinary rendition perpetrate dalla Cia con l’appoggio dei servizi segreti alleati) e i bombardamenti indiscriminati in risposta ai delitti compiuti da chi odia il nostro modo di vivere, nascono sempre da lì, da un odio razzista che abbiamo esportato e che adesso ci viene restituito con gli interessi.
Fame e fucilazioni – Abbiamo detto che la tesi appare convincente perché la storia e i suoi numeri parlano con voce chiara: dai campi di concentramento inventati all’inizio del ‘900 dai britannici in Sud Africa in cui morirono di fame e stenti oltre 26 mila donne e bambini boeri (fonte Enciclopedia britannica) fino ai raid aerei sempre degli inglesi sugli iracheni all’inizio degli anni Venti. «Ora arabi e curdi – scriveva un ufficiale dell’aviazione britannica destinato a diventare famoso, Arthur Harris, il distruttore delle città tedesche nella Seconda Guerra mondiale – sanno cosa significa davvero un bombardamento: ora sanno che nell’arco di 45 minuti un villaggio può essere praticamente spazzato via e un terzo dei suoi abitanti ucciso o ferito». Possiamo ricordare anche le fucilazioni di innocenti eseguite dagli italiani in Libia al momento della conquista (1911-12), che poi nel primo dopoguerra (1931) ebbero una replica su scala più vasta con la deportazione di circa 100 mila arabi libici, di cui almeno 40 mila morirono di fame, stenti o fucilati quando non ce la facevano più ad andare avanti (Franco Cardini e Sergio Valzania, La scintilla, Mondadori).
Nessuno fu innocente – E che dire dei tedeschi? Le loro imprese in Africa agli inizi del ‘900 hanno fatto parlare di un Olocausto ante litteram (The Kaiser’s Holocaust è intitolato un bel libro di Casper Erichsen e David Olusoga). Nell’Africa del Sud Ovest (attuale Namibia), dopo una ribellione soffocata nel sangue, il generale Lothar Von Trotha ordinò che i membri della comunità locale degli Herero, compresi donne e bambini, fossero uccisi a vista, mentre quelli scampati alla morte dovevano essere deportati nel deserto e lasciati morire di fame. Si stima che 60-70 mila Herero, su una popolazione totale di 80 mila, siano stati uccisi. Nel 1908 la stessa tecnica (campi della morte, lavori forzati nelle miniere di diamanti, fame, stenti e fucilazioni) fu applicata anche alle tribù Nama, che pure si erano ribellate: perì più o meno l’80 per cento della popolazione.
Dalla Cina alla Palestina – Quando i tedeschi nel 1900 si unirono agli altri Stati europei nella repressione dei tumulti anti-occidentali scoppiati in Cina (la cosiddettarivolta dei Boxer), il kaiser Guglielmo II si rivolse ai suoi soldati in partenza per l’Oriente con queste parole: « Quando vi troverete faccia a faccia con il nemico, sappiate batterlo. Nessuna grazia! Nessun prigioniero! Tenete in pugno chi vi capita sotto le mani. Mille anni fa, gli Unni di Attila si sono fatti un nome che con potenza è entrato nella storia e nella leggenda. Allo stesso modo voi dovete imporre in Cina, per mille anni, il nome «tedesco», di modo che mai più in avvenire un cinese osi anche solo guardare di traverso un tedesco». Forti di questo invito, i tedeschi compirono in Cina raid punitivi ancora oggi ricordati per la loro brutalità. Degli Stati Uniti nelle Filippine si è già detto. Per quanto riguarda il Belgio, si calcola che metà della popolazione del Congo (possesso personale del re Leopoldo II), vale a dire circa 8 milioni di persone, sia stata eliminata tra il 1885 e il 1908. Per non parlare di Siria, Libano, Iraq, Giordania e Palestina, la cui spartizione tra Gran Bretagna e Francia senza nessun rispetto per le esigenze e la storia delle popolazioni locali, grazie allo sciagurato trattato Sykes-Picot del maggio 1916, è all’origine di quel «disastro del Medio Oriente» le cui conseguenze sono arrivate fino a noi: la cronica instabilità dell’area e anche il terrorismo dell’Isis sono, a parere degli autori di questo blog, un’eredità di quegli anni.
Catastrofe inesplicabile? – E’ per tutto ciò che Pankaj Mishra invita a riscrivere o quanto meno a ricordare la storia di cento anni fa non soltanto occupandosi degli spari di Sarajevo, delle trincee del fronte occidentale o della «generazione perduta» di Siegfried Sassoon e Vera Brittain. Ma anche delle centinaia di migliaia di lavoratori africani e asiatici che, in stato di semi-schiavitù, costruirono quelle stesse trincee, degli indiani che morirono per la Gran Bretagna e dei maghrebini che diedero la vita per la Francia. E soprattutto che la Grande guerra non fu «un’inesplicabile catastrofe in cui le super civilizzate potenze europee si infilarono come sonnambuli» bensì un evento il cui «retroscena era rappresentato da decenni di imperialismo razzista le cui conseguenze sono ancora fra noi».
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