Da 48 ore Yeon indossa un pannolone e fa la pipì addosso per non doversi alzare dalla sedia. Eppure, non appartiene a una delle categorie legittimate a usare l’ingombrante accessorio: non è un chirurgo che deve operare per tredici ore di fila senza interrompere un delicato intervento, né un anziano con qualche normale problema di incontinenza.
Yeon (il nome è di fantasia) è un sedicenne sudcoreano di Seul, che da due giorni non dorme e non mangia (a parte una merendina inghiottita alla scrivania) perché sta giocando online la finale di un videogame contro due teenager che lo sfidano da Tokyo e Shanghai: non si alzerà dalla sedia finché non avrà vinto o perso. Costi quel che costi. Perché il ragazzo è un internet-jungdogja, parola coreana che significa “dipendente da” o “drogato di”. Cioè uno di quegli internet-dipendenti (adolescenti, ma non solo) che vivono davanti al computer rinunciando al resto: scuola o lavoro, vita familiare, relazioni sentimentali e sessuali, amici, sport. In pratica, tutto, o quasi.
Quello di Yeon non è certo un caso isolato. La paura di un’escalation aggressiva della Corea del Nord cresce di giorno in giorno così come aumenta la paura che la situazione precipiti. A ogni scaramuccia il termometro della tensione nel Paese fa registrare un’impennata. Intendiamoci: non è solo per sfuggire all’angoscia della guerra che i sudcoreani cercano sempre più spesso rifugio nella realtà virtuale dei videogiochi. Il problema ha radici lontane e complesse. La paura della guerra, tuttavia, lo accentua e aumenta l’allarme sociale degli internet-jungdogja. Perché le conseguenze nel medio-lungo periodo portano a una progressiva e dolorosa discesa nel vuoto: isolamento sociale, perdita del senso di realtà, incapacità di concentrarsi su altre cose e di organizzarsi la vita, difficoltà a dormire, problemi al sistema nervoso, disturbi della personalità.
Un numero crescente di famiglie sudcoreane ha un figlio o una figlia che rischia di diventare un Yeon. Per questo i genitori angosciati si rivolgono al Korea Internet Addiction Center, un’istituzione per la prevenzione e la lotta contro le web-dipendenze fondata dallo Stato sudcoreano - con notevole lungimiranza - già nel 2002, quando i social network non esistevano ancora e il web 1.0 era infinitamente meno esteso e complesso di oggi. Per prima cosa, sul sito del Center i genitori trovano una serie di questionari da compilare per capire se l’adolescente presenti sintomi di dipendenza patologica da Internet o da smartphone e, se sì, a quale livello sia giunto. Ecco qualche domanda. «Il ragazzo rimane online senza mangiare, riposare o andare al gabinetto? Quando non è online si mostra ansioso e incapace di concentrarsi su altre attività? Il grande uso di videogame si rivela un ostacolo alla concentrazione nello studio? Quando vede scene violente nei videogame appare bloccato o contratto?».
Il fenomeno dunque è radicato e gli allarmi su questa nuova malattia sociale sono diffusi. In uno studio pubblicato sull’American Journal of Psychiatry nel 2008, Jerald J. Block chiedeva di non sottovalutare le psicopatologie legate alla dipendenza da Internet e sosteneva (inascoltato) la necessità di inserire questa dipendenza nella nuova edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, noto come Dsm e utilizzato in tutto il mondo da medici, psichiatri e psicologi. Block citava proprio il caso della Corea del Sud, evidenziando i comportamenti compulsivi e i disturbi della personalità dimostrati dagli internet-jungdogja e ricordando almeno una decina di casi di morti da infarto avvenute fra giocatori di videogame. Decessi noti solo perché si sono verificati in pubblico, in quegli internet cafè chiamati PcBang dove trovano rifugio tutti i ragazzi che per vivere agevolmente la propria internet-dipendenza hanno bisogno di uno spazio libero da controllo sociale. Un controllo esercitato dai genitori, nel caso dei ragazzi che vivono in famiglia. Oppure dai padroni di casa, per gli studenti universitari fuori sede, che affittano stanzette spesso minuscole e carissime, studiano tutto il giorno e la notte evadono attraverso il computer di un PcBang.
Su tali fenomeni, però, ancora oggi la scienza non esprime giudizi unanimi. Per alcuni esperti l’internet-jungdogja è un malato affetto da un disturbo della personalità; per altri va considerato un drogato da disintossicare come un eroinomane. «Ma in questo caso noi medici non possiamo curare il paziente come se fosse un tossicodipendente comune», dice il dottor Lee Jae-Won, neuropsichiatra al Gangnam Eulji Hospital di Seul. «Perché qui non si tratta di far cessare completamente l’uso di una droga. Lo scopo non è che il paziente non usi più internet. Vogliamo solo dargli un aiuto affinché lo faccia in modo consapevole, responsabile e non nocivo. Perciò la guarigione è molto complessa».
Il percorso passa di solito per uno dei centri di terapia e recupero, nati spesso in zone verdi del Paese per strappare i ragazzi al pc e allo smartphone. Quest’ultimo è il primo oggetto da consegnare all’ingresso nel centro. E questo vale sia per lo smartphone ufficiale, cioè noto ai genitori, sia per quello segreto, che molti ragazzini hanno all’insaputa della famiglia. La terapia inizia con cose semplici: si portano gli internet-jungdogja a vivere per un po’ nella natura,andando a fare trekking nei boschi o a cavalcare in campagna (l’ippoterapia viene utilizzata con buon successo); li si aiuta a socializzare con altri ragazzi in modo diretto, cioè parlandosi e guardandosi negli occhi anziché chattando su Kakao Talk, il sistema di chat più utilizzato in Corea; ovviamente si fa terapia psicologica o psichiatrica secondo le necessità. Insomma, si cerca di restituire i ragazzi al mondo e anche a se stessi.
Il detox digitale funziona spesso, ma non sempre. Il vero problema è che sembra di essere di fronte a un contagio sociale: mentre alcuni guariscono altri si ammalano, e i secondi sono più numerosi dei primi. Soprattutto nella fascia più vulnerabile: i teenager. Nel 2016 il ministero per la Famiglia e l’Uguaglianza di Genere ha condotto un’estesa ricerca sui comportamenti di un milione e mezzo di studenti sudcoreani di età compresa fra gli 11 e i 15 anni. Ecco alcuni risultati evidenziati dal quotidiano Korea Herald: il 14 per cento degli studenti nella fascia di età analizzata ha una dipendenza patologica da Internet o dallo smartphone; la classe d’età a maggior rischio di internet-dipendenza è quella degli undicenni, con una significativa crescita del fenomeno nel 2016 rispetto agli anni precedenti; sono molto più a rischio i ragazzi che al ritorno da scuola si ritrovano in una casa senza nessuna autorevole figura parentale.
Conclusione: nonostante gli sforzi, la situazione sta peggiorando, quale che sia il ruolo in questa deriva della paura di una guerra. Un esempio delle difficoltà? Nel 2011 il governo di Seul approvò la cosiddetta “Legge di Cenerentola” per tutelare i ragazzi da mezzanotte in poi, impedendo ai minori di 16 anni l’accesso ai siti di videogame fino alle sei del mattino. Una mossa resa possibile dal fatto che in Sud Corea per entrare in un sito a rischio (dalla pornografia ai videogame estremi) chiunque deve fornire il proprio codice identificativo nazionale, che ne rivela anche l’età. Ma molti giovanissimi internet-jungdogja hanno aggirato la legge e sono arrivati sui siti fornendo il codice degli ignari genitori, oppure quello di altri adulti compiacenti.
Negli ultimi anni lo Stato ha aperto centri di aiuto in ospedali e altrove, eppure ogni notte centinaia di migliaia di giovani fuggono dalla quotidianità trovando rifugio in sogni digitali a caro prezzo. Guerra nucleare a parte, il fenomeno degli internet-jungdogja è anche legato a fattori di carattere culturale, tecnologico e sociopolitico. Innanzitutto, la Corea del Sud ha un ecosistema elettronico che favorisce il culto della tecnologia digitale e l’insorgere della dipendenza da Internet.
Il Paese è iperconnesso al web e Seul - dieci milioni di abitanti e una selva di grattacieli - è la città più wired del pianeta, con il 94 per cento di connessioni in banda larga. Inoltre, sulle autostrade digitali coreane si viaggia a una velocità che noi occidentali possiamo solo sognare, il che rende molto agevole fare lunghi videogame online. Ma soprattutto, in Corea del Sud i videogame sono nobilitati, cioè innalzati al rango di veri e propri sport: li chiamano e-sports, con tanto di squadre di giocatori professionisti, scontri internazionali in arene e palazzetti pieni di fan, sponsorizzazioni milionarie di grandi brand, giro d’ affari stellare. E tutto ciò viene gestito e regolamentato da un’associazione fondata nel 2000 dal governo: la Kespa, Korean e-sports association. Se a ciò si aggiunge che il sogno della Kespa e di molti coreani sarebbe portare gli e-sports alle Olimpiadi, si capisce perché il piccolo Yeon (e molti come lui) passi le sue notti a cercare di entrare a far parte di questo mondo-gioco pieno di luci brillanti, di soldi, di spettacolo e di gloria.
Ma non basta. La Corea del Sud è un Paese con un sistema di valori confuciano, segue cioè una tradizione filosofica che basa la vita sociale sulla gerarchia, la disciplina di gruppo e il rispetto dei superiori, imponendo protocolli comportamentali rigidissimi. Al centro della società non c’è l’“io” (come in Occidente) bensì il “noi”: le esigenze di gruppo prevalgono su quelle dei singoli, nel quadro di una generale aspirazione all’armonia sociale. Scoraggiati dal farsi avanti individualmente, imbarazzati al pensiero di manifestare idee o sentimenti in pubblico, i giovani coreani sono timidi e scelgono perciò di prendere contatto con gli altri tenendoli a distanza tramite smartphone, tablet o pc. Che diventano i veicoli di ogni comunicazione.
Non per caso, fenomeni analoghi a quello degli internet-jungdogja si registrano in altri due Paesi fortemente influenzati dal confucianesimo: la Cina e il Giappone. Nel luglio 2017 il Quotidiano del Popolo, organo ufficiale del Partito comunista cinese, ha attaccato duramente la casa produttrice di videogame Tencent, definendo uno dei suoi giochi online «un veleno che diffonde energia negativa». Negli ultimi dieci anni la Cina popolare ha aperto circa 250 campi di cura per giovani internet-dipendenti.
Quanto al Giappone, sin dagli anni Ottanta del secolo scorso vi si è diffusa quella che è ormai nota, fra gli psicologi di tutto il mondo, come “Sindrome di hikikomori”. Questa parola giapponese significa «isolarsi, stare in disparte» e identifica quei giovani che scelgono di ritirarsi dalla vita sociale, confinandosi in casa per mesi senza uscirne mai. Questo auto-esclusione dal mondo non è direttamente ascrivibile a una internet-dipendenza, tuttavia nel corso del proprio auto-esilio gli hikikomori fanno di internet la propria unica finestra sul mondo. Non si tratta dunque dello stesso disturbo della personalità che affligge i coreani, però ha dei punti di contatto con quello. Uno studio del Boramae Medical Center di Seul sostiene che i giovani coreani hanno una probabilità cinque volte maggiore dei coetanei giapponesi di diventare internet-dipendenti, benché in Giappone il fenomeno sia ben più vecchio e radicato.
E, sorpresa, gli hikikomori ci sono ormai anche in Italia, dove è nato un centro di aiuto . L’Italia non è certo un Paese confuciano. Ma la globalizzazione non ci fa caso più di tanto.
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