Alain Touraine, il decano dei sociologi francesi a cui si deve l’espressione “società postindustriale”, ha dedicato i suoi ultimi libri alla disgregazione della società industriale e ai conflitti che caratterizzano quanto viene definita “epoca postsociale”: l’epoca non più governata dalla dimensione socio economica dei problemi, bensì da quella etico individuale. Ne “La fine delle società” ha analizzato il capitalismo finanziario e il suo ruolo nella crisi delle principali istituzioni politiche e sociali: dallo Stato alla famiglia, passando per i sindacati e i diversi sistemi di protezione e controllo sociale (La fin des sociétés, 2013). Con “Noi soggetti umani” ha sottolineato la necessità di riscoprire i diritti umani per contrastare il capitalismo finanziario attraverso un rigurgito etico individuale (Nous, sujets humains, 2015). Infine, ne “Il nuovo secolo politico” ha riflettuto sul modo di affrontare i grandi temi che monopolizzano il dibattito pubblico: dalla questione nazionale a quella religiosa, passando per la lotta al terrorismo e la sfida ambientale (Le nouveau siècle politique, 2016).
Il secondo volume, un libro a cui l’autore afferma di sentirsi “più vicino che a tutti gli altri”, è da poco uscito in traduzione italiana (Noi, soggetti umani, trad. M.M. Matteri, Il Saggiatore, 2017, pp. 308). Offre l’occasione per una sintesi del pensiero di Touraine sul modo di reagire ai guasti prodotti dalla globalizzazione, e per valutarlo alla luce delle dinamiche che caratterizzano la costruzione europea.
Il punto di partenza è la qualificazione del capitalismo finanziario, alla base dei processi di globalizzazione, come “potere totalitario”, capace di dominare “l’universo della soggettività” per sacrificare il bene comune agli interessi privati di pochi. Per Touraine questa forma di capitalismo non può più essere combattuta dallo Stato, che ha perso la sua capacità di mediare tra la sfera economica e la sfera sociale. Neppure si potrebbe pensare a un utilizzo delle armi messe a punto nel corso del Novecento, quindi all’azione dei lavoratori riuniti nei partiti operai e nei sindacati, svaniti assieme alla società industriale. Il tutto mentre al momento sono capaci di ottenere successo solo “movimenti antisociali”, con le loro istanze identitarie di matrice xenofoba avanzate ricorrendo a metodi violenti.
Fortunatamente, rileva Touraine, alla pervasività dei poteri totalitari fa riscontro una “consapevolezza sempre maggiore della creatività, della libertà e della dignità individuali e collettive”: la consapevolezza tipica dell’epoca postsociale. Lo si vede nelle lotte contro il capitalismo finanziario, ma anche in quelle condotte a livello planetario contro gli altri poteri la cui azione caratterizza il tempo presente: i partiti totalitari (quello cinese in testa), e le dittature postnazionaliste sostituitesi alle forze anticolonialiste e nazionaliste nei luoghi un tempo interessati dall’imperialismo occidentale. A partire da queste lotte si può evidenziare la necessità di una rivolta delle coscienze, di una sollevazione “etico democratica” che collochi l’essere umano al centro dello stare insieme come società, e che dunque lo elevi al di sopra di tutte le istituzioni e di tutti i poteri.
Più precisamente, per sconfigge il capitalismo finanziario occorrono “movimenti di lotta per la soggettivazione”, capaci di affermare il “carattere universale dei diritti umani fondamentali”, collocandoli al di sopra di tutto: incluse le istituzioni politiche e le leggi, persino quelle costituzionali. Il che significa promuovere i diritti fondamentali esemplificati nella triade “libertà, uguaglianza, fratellanza”, e a monte “la fede nell’uomo”, ovvero un “individualismo autoconsapevole come valore supremo”.
Lo schema qui riassunto ha un indubbio fascino perché indica la necessità di ripristinare l’equilibrio tra individuo e ordine pregiudicato dal funzionamento del mercato: il capitalismo finanziario, ma si potrebbe dire il capitalismo tout court, non è certo a misura di individuo. Questo valeva forse per l’ordine economico tipico della società borghese, fondata sul patto per cui al sovrano si affidava l’impero e all’individuo la proprietà, che ben poteva costituire uno strumento di emancipazione: chiunque poteva acquisire la titolarità di un bene nel momento in cui lo trasformava con il suo lavoro (secondo lo schema reso celebre da John Locke). Peraltro l’avvento della società industriale aveva inceppato questo schema: con il sistema di fabbrica il lavoro non poteva immettere nella condizione proprietaria, che diveniva così il sigillo su un’odiosa immobilità sociale. Di qui una serie di conflitti che evidenziavano come il capitalismo si potesse governare solo reprimendo la logica individualistica ereditata dalla società borghese e applicando quella olistica, tipica dell’ordine politico simboleggiato dal Leviatano, indispensabile alla sopravvivenza della società industriale. Il tutto consolidatosi per effetto della prima guerra mondiale che, come è stato detto efficacemente all’epoca, ha affossato l’individualismo esattamente come la Rivoluzione francese aveva decretato la fine del feudalesimo.
Insomma, la soggettivazione di cui parla Touraine costituisce davvero un passaggio fondamentale per combattere la pervasività del neoliberalismo. Quest’ultimo ha esplicitamente inteso completare la Rivoluzione francese mediando tra le sue istanze liberatorie e quelle ordinatorie indispensabili ad assicurare il funzionamento del principio di concorrenza. Nasce da questo schema l’idea secondo cui un potere politico forte deve innanzi tutto polverizzare il potere economico, condannando così gli individui a reagire in modo automatico agli stimoli del mercato. Il tutto facendo apparire il neoliberalismo come un vero e proprio dispositivo biopolitico: pronto a consentire alle forze individuali di sprigionarsi, ma anche a incanalarle a beneficio dell’ordine economico eretto a sistema.
Se così stanno le cose, allora non è corretto ritenere che nella società postindustriale, o meglio nell’epoca postsociale, lo Stato sia un attore secondario o comunque in via di disgregazione. Al contrario, ha reso possibile il rafforzamento dell’ordine economico neoliberale, che di sicuro non poteva affermarsi con il solo contributo della mitica mano invisibile. E questo vale innanzi tutto per il capitalismo finanziario, che necessita del contributo fondamentale dei pubblici poteri per consentire la circolazione incondizionata dei capitali, fondata su una complessa architettura istituzionale la cui edificazione e manutenzione non può certo essere lasciata alle forze del mercato.
Più in generale si può dire che non esiste un mercato senza regole poste dai pubblici poteri. E che lo Stato costituisce un attore imprescindibile per rendere la difesa dei diritti umani fondamentali uno strumento di emancipazione, per trasformare il principio di uguaglianza da mera affermazione rilevante sul solo piano formale, a massima capace di mobilitare le risorse indispensabili a costruire la parità sostanziale.
Altrimenti detto, si può anche invocare, come fa Touraine, la dignità umana come principio “etico” indiscutibile, e magari renderla il punto di riferimento per il riscatto dell’individuo schiacciato dall’ordine. E si può anche valorizzare la circostanza che un diverso equilibrio tra individuo e ordine è indispensabile a riscattare il primo (e a rendere il secondo incapace di esprimere violenza totalitaria). Si tratta tuttavia di affermazioni destinate a restare sulla carta, se non sono accompagnate dalla previsione di un obbligo in capo allo Stato di rimuovere gli ostacoli alla realizzazione dell’uguaglianza. E ciò significa avere la consapevolezza del fatto che i diritti umani sono inscindibili dalle regole e dalle istituzioni chiamate a prevederli e a difenderli: che affermare la superiorità dei primi sulle secondo ricalca schemi giusnaturalisti forse efficaci sul piano declamatorio, ma inutili dal punto di vista della possibilità storica di un ordine davvero incentrato sui diritti umani.
È peraltro difficile evitare le trappole dei paradigmi giusnaturalisti, se si ricorre al concetto di dignità ritenendo che porti alla “affermazione diretta, etica, del diritto, senza dover passare attraverso intermediari economici, sociali o politici”. Così inteso, si tratta di un concetto interclassista, e anzi postideologico, che non a caso il sociologo francese ritiene il punto di riferimento per le lotte dei soggetti umani orfani della lotta di classe. Un concetto, ancora, destinato a svalutare il profilo relazionale dei diritti, ovvero a trascurare la portata dei conflitti che possono sorgere tra i titolari di diritti, che occorre bilanciare valorizzando la condizione di debolezza o di forza strutturale tipica in cui si trovano. È del resto questo il senso dell’uguaglianza sostanziale, per la cui promozione non si possono dunque screditare le categorie utilizzate per misurare quella debolezza e quella forza, inclusa evidentemente la classe sociale. Né tantomeno il ruolo dei pubblici poteri, punti di riferimento insostituibili per realizzare il bilanciamento in discorso.
Il tutto senza dimenticare che l’emancipazione non costituisce una prerogativa dell’esperienza occidentale, come sembra invece affermare Touraine nel momento in cui celebra la modernità espressa “dal razionalismo aristotelico e cartesiano fino alle dichiarazioni dei diritti dell’uomo inglese, americana e francese”. Giacché, se per un verso “i grandi Paesi occidentali che dominano l’economia mondiale sono apparsi come i portatori dell’universalismo della modernità e come i creatori della democrazia sociale”, per un altro verso quegli stessi Paesi sono stati la culla del neoliberalismo, ovvero di una teoria e di una pratica incompatibile con la democrazia sociale. Il che vale anche per l’epoca postsociale, che per il filosofo francese ha prodotto una società aperta alla globalizzazione, capace di impiegare la tecnologia senza subirla. È tuttavia la tecnologia ad aver offerto al capitalismo la possibilità di moltiplicare la sua capacità di estrarre valore dalle persone, i cui tempi di vita sono sempre più confusi con il lavoro.
Ma torniamo al concetto di dignità come riassuntivo del complesso dei diritti fondamentali riconosciuti in capo al soggetto umano. Essa può anche essere concepita come diritto a un’esistenza assistita da adeguate risorse materiali, quindi come dovere dei pubblici poteri di realizzare politiche redistributive capaci di annullare la debolezza sociale: in fin dei conti è questo il senso con cui viene intesa dalla Dichiarazione universale dei diritti umani, dove si parla dei “diritti economici, sociali e culturali” della persona, ritenendoli “indispensabili alla sua dignità ed al libero sviluppo della sua personalità”. In Touraine non mancano affermazioni dello stesso segno (al netto di una confusione terminologica che pervade molte tra le parti del volume in cui ricorre una terminologia giuridica). E tuttavia prevale l’approccio giusnaturalistico al concetto di dignità, quello che contempla i soli diritti della tradizione liberale, ovvero che non rinvia ai diritti sociali.
È quest’ultima l’accezione con cui il concetto viene richiamato dalla Costituzione tedesca, e soprattutto dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, la cosiddetta Carta di Nizza. Entrambe aprono con una disposizione dedicata all’inviolabilità della dignità umana, ed entrambe esprimono la volontà di contrapporsi ai totalitarismi, sottolineando l’equiparazione di fascismo e socialismo. Il tutto per assicurare la resistenza della normalità capitalistica alle tensioni verso la costruzione di un ordine democratico ostile ai paradigmi neoliberali, considerato un pericoloso scivolamento verso concezioni socialiste dello stare insieme come società. Per questo nella Costituzione tedesca come nella Carta Nizza si parla unicamente di uguaglianza in senso formale, sebbene precisata da un ampio divieto di discriminazione. Nessun riferimento, invece, all’uguaglianza sostanziale, ovvero al dovere dei pubblici poteri di rimuovere gli ostacoli alla sua affermazione. Nessun riferimento anche ai diritti sociali, ovvero allo strumento indispensabile a evitare che la prestazione sociale sia un’elargizione del potere costituito accordata in cambio della rinuncia alla lotta politica.
Alla luce di tutto ciò risaltano i limiti dell’analisi di Touraine, che se per un verso intende emancipare l’individuo dalla forza attrattiva dell’ordine economico, per un altro lo priva degli strumenti indispensabili allo scopo. Primo fra tutti lo Stato, che del resto è l’unica arena entro la quale produrre il conflitto sociale indispensabile a riorientare l’azione dei pubblici poteri a favore dell’equilibrio tra democrazia e capitalismo: lo stesso equilibrio di cui aveva beneficiato la società industriale. I tempi sono evidentemente cambiati e nessuno pensa di tornare al Novecento, ma proprio questo è ciò che si sta verificando nell’attuale fase di riforma dell’ordine economico ottenuta sacrificando l’ordine politico. Giacché questa è la medesima combinazione alla base dell’esperienza fascista, che dunque prepara una regressione alla prima, piuttosto che alla seconda metà del Secolo scorso: una calamità per impedire la quale l’appello alla dignità potrà fare ben poco.
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