In che senso?
«Nel senso che la borghesia non è identificabile soltanto con la sfera economica. Anzi, sotto certi aspetti trascende completamente quella sfera. Borghesia non definisce tanto uno status economico quanto una dimensione di educazione, di formazione, di sensibilità, di tatto».
Sensibilità di che tipo?
«Il borghese si caratterizza per moderazione e misura. Misura nel rapporto con gli altri e nell’espressione dei propri sentimenti. Pudore dei propri stati d’animo. È un uomo delle distinzioni, del dubbio. Diffida di qualsiasi affermazione che assuma il timbro della certezza e questo lo espone a una tentazione scettica. Ma scettico non è. Cerca sempre la fondatezza della propria misura. Il borghese non è il sapiente né il filosofo. Le viene in mente il borghese se pensa a Spinoza o a Hegel?».
Se penso a Hegel sì. Ma mica è un insulto.
«D’accordo, ma voglio dire: il filosofo è uno che cerca sempre la fondazione del proprio punto di vista. A riguardo sarebbe interessante studiare per esempio la differenza tra i caratteri di un Croce e di un Gentile. Da una parte la logica delle distinzioni tipicamente borghese, dall’altra l’etica e la politica gentiliane, la certezza dell’affermazione filosofica».
Ok, ma così non si rischia di culturalizzare il borghese, di angelicarlo come fa oggi il discorso elegiaco sulla scomparsa della buona borghesia, che poi totalmente buona non era?
«Ma è chiaro! Intendo dire che il borghese non è stato solo l’imprenditore manchesteriano di Marx né tantomeno l’individuo prepotente, rapace, arraffante. Era una figura ambivalente, un centauro, o meglio una creatura policefala, a più teste. Ma ormai di testa gliene è rimasta soltanto una».
Quale?
«Quella dell’Ubi pecunia ibi patria, quella che guarda alle leggi economiche come a leggi di natura, alla globalizzazione come un movimentio di potenza economico-finanziaria senza limiti. È una nuova fede, una religione inconsistente e infondata perché si basa sull’idea di poter andare avanti all’infinito. Ha vinto la figura aristotelica di colui che vuole tutto per sé, che dice: “Il mio potere arriva fin dove giungo”. Ogni relazione di valore con l’altro, ogni freno etico, ogni Paideia o Bildung – educazione umanistico-borghese – sono state smantellate pezzo per pezzo. Questo capitalismo segna la fine del borghese».
Che dunque non si è reso invisibile, ma è proprio morto.
«Stramorto! È archeologia. Beni culturali. Oggi siamo alla vittoria dell’imprenditore o di colui che si vuole imprenditore. La vittoria dei Trump o di quanti vorrebbero assomigliarli. È la vittoria di quella roba lì».
Perché – e in Italia ne abbiamo avuto un esempio non da poco – la discesa in politica degli imprenditori non funziona?
«Ma perché si tratta di figure che già appartengono a una dimensione totalmente postborghese, a un capitalismo puramente mercatorio. Vede, nei Buddenbrook – tanto per limitarci alla letteratura – il borghese è anche il capitalista, ma non si identifica mai del tutto con il senso e i valori di quella professione. Senza essere un relativista, vuole esprimere una società politeistica, all’interno della quale non c’è nessuna egemonia di classe».
Adesso non mi dica che la borghesia non è una classe.
«Non lo è! In quanto tale, il borghese non dà mai vita a corporazioni, anzi: si è affermato proprio dissolvendole. Certo, se ha interessi economici apparterrà alla Confindustria, ma non si riduce a quella cosa lì».
Con l’epoca borghese «si dissolvono tutti i rapporti stabili e irrigiditi», «si volatilizza tutto ciò che vi era di corporativo e di stabile, è profanata ogni cosa sacra» Marx (&Engels) dixit. Per questa sua natura dinamica, desacralizzante, anti Ancien Régime, la borghesia piaceva alla sinistra, mentre spaventava la destra.
«Sì, ma identificandola con il capitalismo, la sinistra ha finito col dare alla borghesia un volto stabile, sicuro. Invece attaccandola, dicendole: “Tu professi il politeismo dei valori, promuovi lo sradicamento, non riconosci l’eticità dello Stato, il primato del Politico...” la destra riconobbe il carattere della borghesia meglio della sinistra. O quantomeno di certa sinistra».
Salvo però che, in quanto sradicato, il borghese finisce per coincidere con l’ebreo. E sono guai. Guai grossi.
«È evidente, la critica di destra andava a finire all’ebreo errante, al senza patria».
E non solo nei volantini della propaganda: anche nei diari filosofici del suo amato Heidegger, per esempio.
«Sì, ma adesso non mi ritiri fuori la faccenda di Heidegger e del nazismo. Lo vogliamo capire o no che tutti questi temi non definiscono unicamente il nazista? In Europa appartenevano a una costellazione culturale vastissima! Erano senso comune di una certa destra, senso comune del tempo. Cattivo, pessimo senso comune».
E gli operai organizzati? Nemmeno loro erano classe?
«Eccome se lo erano. Ma vede (ridacchia), l’aspetto veramente incredibile di tutta questa storia è la fine simultanea di classe operaia e borghesia».
Erano incatenate l’una all’altra nel conflitto. E sono morte abbracciate.
«Perché è mancato l’incontro tra il marxismo e una borghesia liberale, non liberista».
Per colpa di chi?
«Marx individuò nella borghesia la contraddizione tra la creatività individuale e i ceppi del meccanismo economico. Il problema è che non riconobbe analoga contraddizione nella classe operaia. Come noto, Marx pensava che le contraddizioni interne allo sviluppo capitalistico sarebbero esplose fino produrre un esito che avrebbe rivoluzionato le dimensioni culturali ed etiche delle relazioni umane. Ora questo della trasformazione economica che diventa ipso facto una trasformazione etica è uno schema che filosoficamente non regge».
È la famosa critica all’economicismo di Marx.
«Quello che il marxismo italiano più originale, il cosiddetto operaismo, ma non solo lui, tentò di correggere. Marx pensa la classe operaia come variabile dipendente dal meccanismo economico. Mentre l’operaismo dice: no, c’è un soggetto rivoluzionario che ha una sua idea o se si vuole una sua utopia di società che trascende la dimensione economica. Esattamente come l’etica della borghesia oltrepassava la sua collocazione economica!».
Il revisionismo ci dice adesso che, con la sua contestazione dell’educazione borghese, il ‘68 buttò via il bambino con l’acqua sporca. Demolendo certi valori della borghesia, spianò la strada al capitalismo assoluto. Condivide?
«Che dirle, la scuola borghese era quella che era, però nei grandi licei si insegnava a ricordare come si deve, si insegnava il passato come cosa vivente, come presente... Tutta una tradizione educativa che è stata massacrata, cancellata. Il borghese aveva valori – laici – ma li aveva. La famiglia, la Patria intesa in senso non nazionalistico né in quello dell’Ubi pecunia… Il borghese andava a morire per la Patria. Prenda La montagna incantata – che da questo punto di vista ci dice molto più dei Buddenbrook: ebbene, lì il protagonista va a morire per la Patria, ma forse già senza crederci più perché è un borghese che si è “ammalato”, cioè è diventato individuo».
Virus della massima attualità.
«E certo. Fatta a pezzi quella cultura, quella formazione di cui abbiamo parlato, oggi che cosa ci troviamo davanti? Una massa di individui, altro che liquidi: gassosi! Soggetti che, venuta meno ogni forma di aggregazione sociale, sindacale, corporativa, politica, si ritrovano soli. È questa la novità. È questo che crea la base sociale dei Trump, delle Le Pen, dei Salvini e dei Grillo. Alla radice non c’è solo l’impoverimento, il declassamento del ceto medio: c’è l’individualizzazione di massa».
Come se ne esce?
«Boh. Come si fermano la volontà di potenza dell’individuo, del capitalismo assoluto? Come si arresta questo “sabba delle streghe” tanto per dirla con Max Weber? E chi lo sa? Di certo è un processo che sta mettendo radicalmente in crisi l’idea stessa di democrazia come l’abbiamo conosciuta in Occidente dalla fine della Seconda guerra mondiale. Che tra mercato e democrazia si innescasse per magia un circolo virtuoso era un’idea comica. È stata smentita. È sotto gli occhi di tutti».
Nei suoi anni giovanili, militanti, lei non è mai stato tentato dalla demonizzazione della borghesia?
«Mai. Sono nato amando la borghesia. Ho cominciato giovanissimo innamorandomi di Hegel, del primo Lukács, poi di Goethe».
Ma di borghesi etici quanti ne ha incontrati in vita sua?
«Tra gli imprenditori nemmeno uno! (risata). L’etica della responsabilità è stata sempre assolutamente minoritaria all’interno della borghesia capitalistica. Non lo è stata nell’ambito della cultura, dove ha avuto invece un’influenza enorme».
Anche in letteratura, il borghese è scomparso.
«Leggo poco i contemporanei. Ma essendo sparito nella realtà, immagino che lo sia anche nei romanzi. Forse lo racconta di più il cinema...».
Sì,
«Appunto, tipi anonimi, senza biografia, senza territorio. Non stanno da nessuna parte. Sono dei meccanismi: puro cervello sociale globalizzato».
Nessun commento:
Posta un commento