Le piccole virtù — cui anni fa Natalia Ginzburg intitolava un suo libro — sono più che mai necessarie, oggi come sempre e più di sempre. Schiettezza, lealtà, misura, costanza, generosità, gratitudine… Possono cambiare nel tempo le loro forme ma se spariscono tutta la società fa un passo indietro e scivola in quello sterco che la volgarità ha così spesso in bocca. L’urbanità, in particolare, sembra scomparsa, ignorata e calpestata nelle forme e nella sostanza, che senza di esse non esiste.
Urbanità significa rispetto, secondo Kant la virtù più alta o meglio basilare, premessa e fondamento di tutte le altre. L’urbanità è necessaria al convivere, individuale e sociale; spesso deve comprendere pure una capacità di dissimulazione onesta e di reticenza, perché la verità è un valore altissimo, ma se detta brutalmente e volgarmente, senza rispetto, può essere una crudele umiliazione, un coltello che ferisce e che talora forse è bene spuntare lievemente.
L’urbanità è la grande assente nel mondo in cui viviamo. La volgarità è stata completamente sdoganata, il turpiloquio è il nuovo galateo, l’insulto è la forma più diffusa del dialogo. Volgarità nelle assemblee politiche, nelle risse ai talk show televisivi, nei confronti ideologici che diventano ingiurie, non meno rozze ma meno schiette e autentiche di quelle all’osteria.
Lo stile è l’uomo, dice una celebre massima, e se sparisce lo stile sparisce l’uomo. Lo stile non esclude le «brutte parole», perché anch’esse fanno parte della nostra vita e della nostra lingua. La più grande opera poetica italiana e probabilmente universale, la Commedia di Dante, le contiene e le dice tutte, la musica celeste del Paradiso e i rumori scurrili del corpo. Ma l’opera di Dante le dice quando sono necessarie. Circostanze e atteggiamenti intollerabili chiedono parole e gesti che squarciano il sipario della falsità. Ma se il vaffa diventa abituale e banale ogni rapporto, personale o pubblico, si svuota. Sulle labbra del signore o della signora che credono di poter eruttare oscenità perché ritengono di appartenere ad una categoria o ad una classe — sociale, economica, intellettuale — elevata che può permettersi comportamenti biasimati nel «popolo» quelle oscenità sono ancora più stupide.
Le villanie avvengono perché sono impunite quando non premiate. Anche nei rapporti sociali dovrebbe valere il principio, giuridico e non solo giuridico, della sanzione. Se mi comporto da becero in una casa che mi ha invitato, dovrei almeno essere radiato dall’elenco delle persone che si possono invitare, frequentare, salutare. Nelle occasioni pubbliche la sanzione dovrebbe essere più energica e soprattutto ben precisa, come quelle per le automobili in sosta vietata. Chi insulta, specialmente in discussioni pubbliche — televisive o no — dovrebbe almeno essere escluso, per un certo periodo più o meno lungo, dalla possibilità di partecipare ad altri incontri e ad altre trasmissioni, come si fa con i tifosi violenti ai quali si interdice per un certo lasso di tempo l’ingresso allo stadio — pena ridicolmente e ingiustamente mite per quelle insensate e bestiali violenze. L’ingiuria deve essere interdetta anche perché è contagiosa; quando si è offesi si offende a propria volta, mettendosi allo stesso livello.
Una buona soluzione potrebbe essere ad esempio una sostanziosa multa. Se il gioco del lotto, diceva Luigi Einaudi, è una tassa sugli imbecilli, pure una tassa sulla maleducazione sarebbe un piccolo aiuto alle sempre più erose casse dello Stato. Ma viviamo nell’Era volgare e non per colpa del computo dei secoli che la fa incominciare dalla nascita di Cristo.
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