Estate 1932. A Castiglioncello, vicino Livorno, un gruppo di ragazzine milanesi in vacanza prova per la prima volta a giocare a calcio. Per alcune l’idolo da imitare è l’attaccante del Bologna Angelo Schiavio, per altre c’è solo «il Balilla», il bomber nerazzurro Giuseppe Meazza. Si tirano la palla, si divertono moltissimo. Quando tornano a Milano, in testa e nell’anima hanno solo una cosa. Il sacro fuoco per il calcio.
Fondano il Gfc, Gruppo femminile calcistico, la prima squadra femminile di calcio della storia d’Italia. Ed è una meraviglia. Si procurano le maglie e gli scarpini. Trovano il modo di affittare dei campi. Si fanno fare una foto e la mandano a tutti i giornali, insieme a un comunicato che assomiglia molto a un manifesto: «Si può essere signorine per bene e da casa e praticare al puro scopo ginnastico lo sport del calcio». La loro missione: «Irrobustire il corpo e ingentilire l’animo».
Giocano per mesi, ma ben presto sono costrette a smettere. Il regime di Benito Mussolini glielo impedisce con l’obiettivo meschino che hanno tutte le dittature: quello di annullarti l’anima e la libertà, anche solo di giocare a calcio.
Adesso la storia di queste pioniere del calcio italiano è diventata un romanzo: Giovinette, le calciatrici che sfidarono il Duce (Solferino) scritto dalla giornalista del Corriere della Sera Federica Seneghini, che ha ricostruito la vita, gli amori e i sogni di queste ragazze dopo un lavoro di ricerca durato oltre un anno, basato sui documenti dell’epoca, riportati fedelmente nel libro, e sulle interviste fatte ai figli e ai nipoti dei protagonisti.
Non è solo un romanzo storico e non è solo una storia di calcio, o di sport. Racconta come eravamo e come in parte siamo ancora. Parla di coraggio, libertà e ingiustizie ancora attuali.
E lascia l’amaro in bocca, anche se sono passati quasi novant’anni, rileggere ciò che Rosetta Boccalini, stella del Gfc e protagonista del romanzo, prometteva alla rivista Calcio Illustrato, nel 1933: «Amo moltissimo il giuoco del calcio, un amore tenace il mio, non un fuoco di paglia. Le mie compagne hanno tanta passione e buona volontà: non tramonteremo mai».
Si sbagliava, Rosetta. Le donne italiane dovranno aspettare il 1968 per vedere il primo campionato ufficioso di calcio femminile, il 1986 per avere quello istituito da una Federazione strutturata.
E poco importa che lei e le sue compagne, giovani promesse dello sport più amato dagli italiani, non si tirarono mai indietro per dimostrare le loro buone intenzioni. A cominciare dalla scelta estetica di indossare la gonna al ginocchio al posto dei pantaloncini delle altre calciatrici europee. E dalle regole che le giocatrici si erano imposte: tempi di massimo 20 minuti l’uno, un pallone più piccolo rispetto a quello usato dai ragazzi, passaggi solo rasoterra e soprattutto dei portieri maschi in mezzo ai pali.
«Il terrore di medici e gerarchi era che una pallonata troppo forte sugli organi riproduttivi potesse compromettere la fertilità delle giocatrici», spiega Seneghini. «Per questo le ragazze del Gfc stabilirono di mettere in porta i ragazzini della squadra giovanile dell’Ambrosiana-Inter».
Le ragazze furono spinte a chiedere un certificato medico a Nicola Pende, il direttore dell’Istituto di biotipologia individuale e ortogenesi di Genova. «Uno dei punti di riferimento per le teorie “scientifiche” dell’epoca che volevano formare i nuovi italiani sotto l’egida del fascismo e uno dei medici più noti del regime».
Pende diede il via libera: «Io credo che dal lato medico nessun danno può venire né alla linea estetica del corpo, né allo statico degli organi addominali femminili e sessuali in ispecie, da un gioco del calcio razionalizzato e non mirante a campionato, che richiede sforzi di esagerazioni di movimenti muscolari, sempre dannosi all’organismo femminile» scrisse Pende. «Giuoco del calcio dunque, sì, ma per puro diletto e con moderazione!».
Ma il calcio era comunque un’impresa poco adatta alle donne. E molti giornalisti di regime non si stancarono mai, per tutti i mesi in cui il Gfc rimase in attività, di ripeterlo sulle colonne dei quotidiani e delle riviste. «La donna è, e deve restare sinonimo di grazie a gentilezza». Qualità che il calcio non riusciva ad assicurare alle ragazze. E poi: il calcio era l’«antisport», una «buffonata tipo americano» – scrivevano – e durante il «periodo lunare», cosa avrebbero fatto le ragazze? Insomma, «l’Italia fascista aveva bisogno di buone madri, non di virago calciatrici».
Fra i pochi giornalisti che le presero sul serio, Carlo Brighenti. «Il giorno dopo la prima partita pubblica delle ragazze, la prima partita pubblica di calcio femminile della storia d’Italia, fece una cosa straordinaria – spiega ancora Seneghini – Invece del solito articolo su quanto fosse giusto, morale o diverso il calcio femminile, pubblicò la pura e semplice cronaca del match, con tanto di formazioni ufficiali e marcatori. Un articolo di sport, insomma, e non un pezzo di costume». Qualcosa che a ben vedere, novant’anni dopo, facciamo ancora fatica a trovare sui quotidiani italiani.
La passione di Rosetta da Milano dilagò altrove. E quando ad Alessandria nacque un’altra squadra, le milanesi non persero tempo e lanciarono l’idea di un’amichevole contro queste belle e fiorenti giovinette. Non si giocò mai.
Perché nel frattempo a capo del Coni è arrivato Achille Starace, gerarca del regime. E, a differenza del suo predecessore, non ha interesse né passione per lo sport praticato dalle donne. «Lo sport italiano doveva servire a sfornare campioni e campionesse che dessero lustro al fascismo, soprattutto in vista delle Olimpiadi del 1936 – spiega Marco Giani, storico dello sport e autore del saggio pubblicato nell’appendice di Giovinette – Anche per questo Starace impose la chiusura del Gfc».
Per la squadra è arrivata la fine.
I funzionari federali la saccheggiarono alla ricerca di ragazze da reindirizzare in altri sport più utili al Regime, come l’atletica leggera e la pallacanestro. Ci riescono, la squadra si disintegra. «Mentre gli Azzurri si preparavano a vincere i Mondiali di Italia 1934, le pioniere del calcio dovettero dire per sempre addio al calcio – riprende Seneghini – Rosetta passò alla pallacanestro, vincendo tre volte il titolo con l’Ambrosiana. Graziella e Maria Lucchese diventarono campionesse di corsa campestre. L’alessandrina Amelia Piccinini, vinse un argento nel getto del peso alle Olimpiadi del ‘48. Giovanna, sorella di Rosetta, si diede alla politica, diventando partigiana e poi Consigliera comunale del Pci a Milano e vicesegretaria dell’Inps».
Antifascismo e amore per il calcio. Non è una coincidenza e la storia delle giovinette ci ricorda perché non bisogna mai arrendersi, anche senza un pallone da calcio fra i piedi.
Perché ci vuole la stessa libera e coraggiosa tenacia per potersi anche solo immaginare una prospettiva diversa rispetto a quella che un regime di oppressione voleva imporre agli italiani. «Anche per questo mi piacerebbe che i ragazzini e le ragazzine italiane leggessero il mio libro a scuola o che il Comune di Milano ricordasse ora la squadra dedicando loro una strada – conclude Seneghini – Per salvare finalmente dall’oblio la storia di un gruppo di giovani italiane i cui sogni di libertà furono violentemente interrotti dal regime».
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