Se ne parla da pochi anni (il termine si usa da secoli ma è entrato nel linguaggio comune solo nei primi anni ’10) ma è già ora di aggiornarne il significato. Perché il concetto di resilienza, in gergo tecnico la capacità di un materiale di resistere agli urti per poi tornare alle condizioni originali, ha già mostrato i suoi limiti. È davvero un pregio reagire ai traumi e alle crisi piegandosi senza mai spezzarsi e, dopo, tornare come prima? Forse no. Lo conferma un sondaggio Ipsos pubblicato a maggio sul Corriere: per 2 italiani su 3 il timore riguardante la pandemia è tornare, a crisi finita, esattamente come prima. Ecco perché gli esperti propongono un passo avanti: dalla resilienza tout court a quella trasformativa.
«Per resilienza intendiamo la resistenza agli eventi difficili, ma se pensiamo al trauma come a una ferita che si rimargina lasciando una cicatrice allora è più corretto parlare di resilienza trasformativa o rigenerativa», sottolinea Cristina Castelli, docente di Psicologia dello sviluppo all’Università Cattolica di Milano e presidente di RiRes, l’unità di ricerca sulla resilienza dell’ateneo. Un cambio di passo che richiede uno sforzo maggiore: «Bisogna accettare gli eventi ma anche essere pronti ad evolvere». Per questo l’approccio di chi la studia è cambiato: «Abbiamo spostato la nostra attenzione dall’adattamento alla prevenzione: per affrontare meglio i traumi dobbiamo aiutare le persone prima che si trovino in difficoltà», continua. Se è vero che resilienti si nasce, è altrettanto vero che lo si può diventare. «Una valida mano ce la possono dare quelli che definiamo “tutori di resilienza”. Persone che, anche inconsapevolmente, ci aiutano: l’insegnante, l’allenatore, il vicino di casa — elenca l’esperta —. E possiamo allenare la nostra creatività per immaginare soluzioni diverse di fronte alle difficoltà».
Una risorsa che è anche sinonimo di intelligenza. Di una forma particolare, che non riguarda le conoscenze cognitive, ma la capacità di adattarsi con flessibilità alle situazioni nuove. Come fanno le piante, dalle quali potremmo prendere esempio. Ne è convinta Barbara Mazzolai, direttrice del centro di MicroBioRobotica dell’Istituto italiano di tecnologia di Pontedera e autrice del saggio La natura geniale (Longanesi): «L’intelligenza delle piante sta proprio nella capacità di mediazione continua tra l’ambiente nel quale si sviluppano e le strategie che devono trovare per sopravvivere. Senza fretta: la lentezza è la chiave dell’adattamento. Per questo è una delle caratteristiche dei modelli di robot ispirati alle piante ai quali lavoro». Ma anche noi, e non solo i robot, possiamo ispirarci al mondo vegetale: «Durante il lockdown abbiamo vissuto il tempo in modo diverso, riscoprendo valori che a causa della velocità lasciavamo sullo sfondo. La lentezza, in certe situazioni, può essere la strategia adattiva vincente: sapersi fermare e osservare sono state due lezioni importanti».
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