Quella che già nel 1995 lo psichiatra americano Ivan Goldberg aveva definito come la “sindrome della dipendenza dalla rete” (Internet Addiction Disorder) si è a tal punto estesa da conquistare, di fatto, pressoché ogni abitatore della cosmopoli a reificazione integrale.
Non è difficile comprendere come, in forza del proliferare delle relazioni digitali proprie della community virtuale, il nuovo potere seducente del tecnocapitalismo abbia realmente ottenuto, a mo’ di conquista, l’inibizione dei reali rapporti interpersonali, di fatto dissolvendo la base di una rivolta corale.
La iGen, ossia la generazione degli iperconnessi descritta da Jean Twenge, è popolata da uno sciame di giovani che sono permanentemente on line, sempre connessi alla rete dell’internet e disconnessi dalla realtà e dal legame sociale. Il paradigma dell’individuo startupper e promotore di se stesso è egemonico anche sulle reti sociali. La condivisione, che a tutta prima può apparire come un comunitario, figura invece come l’apoteosi dell’individualismo al tempo del social network.
Come bene ha mostrato Ricolfi ne La società signorile di massa, nel gesto della condivisione digitale dei contenuti multimediali, non prevale l’elemento comunitario e altruistico, bensì l’ostentazione ipertrofica del proprio io e delle sue attività; ostentazione che, coerente con il nuovo profilo imperante degli “egomostri”, si risolve puntualmente nell’importuna invasione delle vite altrui mediante l’esibizione narcisistica del proprio io.
Siffatte pratiche possono solo astrattamente appellarsi “condivisione” in rete, giacché, in realtà, sono l’opposto del gesto al quale propriamente allude il verbo condividere. “Con-dividere”, infatti, significa suddividere qualcosa di cui si è in possesso, parzialmente privandosene per renderne partecipi altri soggetti.
Ma, nell’evo dell’Internet e dell’egocrazia compulsiva, chi condivide non si priva di alcunché: si limita a invadere le vite altrui con il proprio io, utilizzando gli altri come un semplice medium, come uno specchio sulla cui superficie contemplare il proprio sé autoscolpito. La generazione dei “selfie della gleba” vive narcisisticamente nella ininterrotta autopromozione della propria immagine, aspirando a quella vetta di alienazione che va sotto il nome di influencer.
Come è stato suggerito da Andrea Zhok, l’autopromozione dell’immagine è il nuovo orizzonte dell’Anerkennung al tempo dell’alienazione planetarizzata: infatti, la potenza della propria immagine, reclamizzata come una merce, è ormai la via maestra per il successo; successo che, poi, molto spesso si esaurisce, appunto, nell’avere una buona immagine, ricavandone plusvalore (si pensi al caso della rete sociale detta Instagram).
Ciò suffraga, una volta di più, una delle tesi in cui si compendia il nuovo disordinato ordine neoliberista: nei suoi spazi, non si “ha” un’impresa, ma si “è” un’impresa. Si diventa, per così dire, capitale vivente o, come già da tempo usa dire, “capitale umano”, merce ambulante che si autovalorizza promuovendosi, nella piena coincidenza tra venditore e merce venduta.
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