Viviamo all’epoca del sarcasmo, altro che post verità. In televisione, sui social network, persino nei palazzi del potere, il sarcasmo ha imbevuto ogni discorso pubblico e noi tutti, nessuno escluso, ne siamo contagiati. Tanto è vasta la portata di questo atteggiamento cognitivo, che poi non è altro che una particolare figura retorica del discorso, che sembra quasi pleonastico doverne portare degli esempi. Sarebbe sufficiente qualche scroll della nostra bacheca di Facebook, o qualche spezzone di un qualsiasi talk televisivo — l’ormai celebre intervento di Christian Raimo durante la trasmissione di Belpietro ne è integralmente intriso — o una qualsiasi delle sedute di quelle che una volta era la Camera e il Senato di una Repubblica e che ora sembrano piuttosto le riprese della Corrida di Corrado.
Sul Corriere della Sera del 3 febbraio di quest’anno, Giorgio Fontana lo aveva già notato e, in un articolo significativamente intitolato Perché dico no al sarcasmo, ci aveva avvisato: la sua natura — quella de
l sarcasmo, non quella di Giorgio — è in fondo una natura nera, reazionaria, nel senso proprio di reazione frustrata in partenza, passivo aggressiva, volta a far male, distruggere, umiliare, non certo a costruire.
A supporto della sua tesi, Fontana cita, tra gli altri, un saggio intitolato E unibus pluram, scritto a metà degli anni Novanta. Nelle oltre 20mila parole che compongono il suo ragionamento, David Foster Wallace descrive in maniera molto lucida proprio questo atteggiamento e, nel farlo, cita anche una frase di Lewis Hyde che ha il sapore delle frasi definitive per quanto è tagliente e precisa.
«Irony has only emergency use», scrive Hyde, «Carried over time, it is the voice of the trapped who have come to enjoy their cage». Una frase che in italiano suonerebbe circa in questo modo: “L’ironia è una modalità di emergenza. Portata avanti nel tempo essa diventa la voce del carcerato che deve farsi piacere la propria gabbia”. Potente, no?
Sembra il testo di una vignetta di Maicol&Mirco, vero? Ma se anche può sembrare una battuta del migliore humour noir, ci colpisce proprio perché è vero. Difficile infatti farsi venire in mente un modo tanto sintetico per descrivere il loop cognitivo in cui ci siamo infilati, questa “dittatura” del sarcasmo in cui ormai viviamo da mesi, assistendo inermi alla corrosione sistematica delle fondamenta di ogni nostro discorso.
Hyde ha colpito nel segno. Il sarcasmo è l’ultima arma a disposizione dei disperati, degli sfruttati, dei subalterni, ma a differenza di altre armi intellettuali, il sarcasmo contiene in sé stesso la resa, è un atto di aggressione passiva, una bandiera grigia che non è bianca soltanto perché si è impregnata del nero della rabbia frustrata che coviamo da decenni.
Il sarcasmo sarà anche una declinazione dell’ironia — lo è — ma è legato a doppio filo con la rabbia. In una delle ultime Bustine di Minerva scritte da Umberto Eco, il professore parla di sarcasmo accostandolo a Luciano Bianciardi, una figura mai troppo ricordata in Italia (paese che non vuole affatto bene ai suoi geni). «La sua vena», scriveva Eco di Bianciardi, «era quella del sarcasmo, e il sarcasmo nasce sempre da una rabbia dolente».
La “rabbia dolente” è quella che portò Bianciardi a uccidersi a colpi di grappa gialla; la “voce del prigioniero” è la nostra, quella che rimbomba all’interno delle nostre bolle social. E non è altro che sarcasmo, una forma di “ironia istituzionalizzata” — per usare le parole di Wallace — che non ha più niente a che vedere con l’ironia di cui è nipotina, ma che ormai ha cambiato di segno. Se l’ironia infatti è la forma mentis del dubbio, quella che ci ha permesso di uscire definitivamente dal medioevo per iniziare il cammino della modernità — solo la potenza dello sguardo ironico poteva scardinare la drammatica e inattaccabile serietà di una Chiesa che di luce non aveva ormai più nulla da secoli — il sarcasmo, proprio in quanto ripiegamento passivo aggressivo, è la sconfitta dell’ironia, è l’ombra della sua ritirata strategica, una ritirata imposta per manifesta inferiorità.
«Sarà una risata che vi seppellirà», disse intorno a metà dell’Ottocento il pensatore anarchico Michael Bakunin, una frase la cui storia successiva — che nel corso di un secolo e mezzo l’ha portata dalle manifestazioni anarchiche di inizio Novecento, a quelle degli anni Settanta fino a diventare il claim di una serie demenziale come Scary Movie (sic) — ci dà un ottimo ritratto della traiettoria di avvitamento che ha trasformato un atteggiamento attivo, coltivato come arma contro il potere, in uno passivo, riflesso istintivo di noi poveri arresi.
Esiste un modo per uscirne? Bella domanda, ma difficile rispondere. Sono in molti quelli che stanno già dicendo da un po’ che quello che stiamo vivendo è l’inizio di un nuovo medioevo, un medioevo dotato di smartphone, di droni e di algoritmi che si occupano di tutto, ma pur sempre un’epoca di mezzo. Secondo costoro avremmo da un paio di decine d’anni mollato gli ormeggi dal molo della modernità per avventurarci in un mare ignoto.
L’istituzionalizzazione del sarcasmo, insieme alla scomparsa del concetto di autorevolezza — sarebbe interessante indagare se le due dinamiche sono legate, probabilmente sì — sono le nuove regole del mondo in cui ci troviamo. Un mondo in cui la scienza è costretta a scontrarsi a mani nude con l’ignoranza e in cui ogni tentativo di ragionare e mettere ordine viene perculato e messo in ridicolo, un mondo in cui, se non troviamo il modo di uscirne, prevarrà l’unica cosa al mondo che non ha alcun problema nell’annullare il potere corrosivo del sarcasmo: l’odio viscerale e la violenza.
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