Esistono parole capaci di far risuonare echi solo in parte precisabili, quando si tenti di notomizzarne la voce: ‘nostalgia’ e ‘utopia’ sono, in questo senso, accomunate dalla forza evocatrice di tempi e spazi collocati altrove. La nostalgia si cura con il recupero di ciò che sta alle nostre spalle, o del lontano, mentre – almeno nel sentire comune – l’utopia è protesa in avanti verso un futuro immaginabile e da costruire. Pur possedendo un loro evidente sapore di grecità, e a loro agio quando si parli di mondo antico, sono parole di conio recente e assenti dal vocabolario di greco. Di nostalgia (il ‘dolore del ritorno’) la letteratura greca si nutre fin dall’esordio; gli eroi accampati a Troia non vedono l’ora di tornare a casa, e da Omero a Kavafis Odisseo punterà sempre a Itaca. La messa a fuoco sull’utopia è più ardua: inventato nel 1516 dall’umanista inglese Thomas More, il termine dava il nome a una nova insula abitata da una società ideale. Abbiamo a che fare con un concetto che si sottrae a un tentativo di definizione dizionariale: come scrutare, dunque, con sguardo retrospettivo e in absentia, l’indubitabile disseminazione di fertili germi utopici in terra greca?
Ci aiuta ora a farlo (e ottimamente) una monografia a firma di Michele Napolitano: Utopia (InSchibboleth Edizioni «Le parole degli antichi», pp. 270, € 20,00). Il libro si concentra selettivamente sui Greci, tralasciando il mondo romano e individuando alcuni poli attorno ai quali far gravitare un’esegesi attenta al dato di dettaglio e insieme capace di costruire un disegno ermeneutico dai vasti confini, e perfettamente leggibile. L’Odissea (i Feaci in particolare), Esiodo, le città in pace e in guerra raffigurate sullo scudo di Achille in Iliade 18, e poi la commedia, Platone, e – secoli più tardi – le parodie di Luciano. Fra gli altri meriti di questo libro è il fatto di poterlo affrontare come un percorso guidato dentro la selva intricata della storia degli studi: Napolitano dispiega una felice antologia della critica saldatasi attorno ai testi in esame, invitando a riconsiderare contributi capitali di maestri come Huizinga, Mazzarino, Finley, Vidal-Naquet, Musti, ma anche Cioran – e altri.
Nota nostalgia utopica (non è un ossimoro) è il vagheggiamento di una tramontata età dell’oro, alla quale segue – almeno per i mortali – un’irreversibile decadenza: nondimeno, i Greci elaborano anche un pensiero utopico vòlto in avanti e per così dire laterale. Sono loro i primi ad avere sognato il miracolo dell’automazione; per primi si sono trovati a concepire animali domestici a guardia dei palazzi come creature meccaniche forgiate da Efesto e associabili a robot; accade nell’Odissea, presso i Feaci a Scheria, i cui abitanti viaggiano su navi che procedono senza bisogno di piloti. Questa proiezione – che Todorov interpretava come manifestazione del ‘fantastico’ – presume anche una riflessione sul ruolo della fatica nelle dinamiche della società umana, dell’organizzazione delle mansioni e dell’economia; ben prima di Aristotele, il pensiero greco elabora un’alternativa (sia pure di matrice divina) alla sottomissione gerarchica, non paritaria, imposta dal lavoro (dagli schiavi ai braccianti agli artigiani). Del resto, nell’altrove di Scheria le preoccupazioni lavorative sono obliterate grazie a una natura che produce da sé ciò di cui i Feaci hanno bisogno, tanto che questo locus ideale e appartato è «prossimo alla perfezione».
Sulla scia di Momigliano, però, Napolitano coglie un tratto utopico dominante nell’assenza di guerra, rimpiazzata da una dimensione agonale fuori dal tempo, quindi giocosa e in fin dei conti innocua. A Scheria, collocata oltre la storia, l’Odisseo guerriero non si può adattare, proiettato com’è sul ritorno e sulla lotta di riconquista (in questa medesima contrapposizione un altro maestro, Carlo Diano, leggeva due modi antitetici di concepire vita e arte, opponendo Iliade a Odissea). Tale fattività odisseica è a tratti palesemente violenta e certo non giocosa, e in essa dimora un disegno utopico che si muove «secondo le coordinate della costruzione». Detto altrimenti, se Odisseo è costretto a passare da Scheria, nondimeno Itaca garantisce dentro la storia l’edificazione di un mondo nuovo, che soltanto se parte da una condizione di difetto e di necessario restauro può contenere i prodromi di un avanzamento; solo ciò che è infranto si può aggiustare.
Ma in fin dei conti, il tragitto che la mente prefigura mettendosi sulle tracce dell’utopia è a direzione variabile; per i Greci poteva essere spaziale, verso un altrove geografico e verso forme di convivenza positiva già realizzate (Scheria, appunto, ma anche gli inesplorati territori descritti da Luciano nelle peregrinazioni della sua Storia vera, «parodia del viaggio fantastico in terra di utopia»). Lo splendore della terra incognita dei Feaci, però – spiega Napolitano –, finisce per essere specchio di quell’età dell’oro che Esiodo descrive in Le opere e i giorni. In entrambi i casi il processo di sostituzione della realtà con l’idolo ingannevole della perfezione perduta è destinato a mostrare il proprio limite. Perché realmente utopico è per i Greci non solo e non tanto un oikos smarrito in un’indefinita epoca edenica, ma il movimento in avanti di un agire specialmente politico che non oblitera né i dilemmi imposti dal vivere comunitario né la fatica di risolverli. Una volta che l’umanità abbia forzatamente rinunciato allo splendore non ripristinabile della tramontata età dell’oro, nella riflessione di Esiodo la centralità del tema di dike, la giustizia, rinnova questa fattività utopica; in altre parole, l’utopia greca mira a incarnarsi in un progresso operoso dove il forte non spadroneggi sul debole (come insegna la storiella esiodea dello sparviero e dell’usignolo). È qui, nella cornice di una città progettata perché vi regni la giustizia sotto il segno di «un’etica dell’attivismo» (giustizia e lavoro, appunto) che l’utopia di Esiodo si concretizza, nell’esercizio di un ‘ritegno (aidós) buono’.
Sotto questo aspetto, mi pare, le pagine di Utopia mostrano una loro urgente attualità. I Greci proiettano sull’oggi la luce che illumina una via possibile: messa da parte ogni fantasia retrotopica, non rinunciano a immaginare il futuro e non lo sacrificano in nome di un passato avvertito come migliore. Dall’età arcaica all’età classica, lungo queste pagine inseguiamo le tracce di un’utopia tentata, sperimentata, anche negli spazi e negli organismi di un’idea di polis. Essa è regolata topograficamente, giuridicamente e istituzionalmente per esaltarne il meson, un ‘punto centrale’ come luogo di condivisione e spartizione: ad Atene la agorá stessa; e si pensi alle geometrie perfette della colonia di Thurii – in Calabria – ideata dall’architetto Ippodamo su impulso di Pericle (torna alla memoria l’utopia novecentesca della città sociale di Valdagno, con Marzotto, e della città industriale di Ivrea con Olivetti, fra altre). In questa capacità di pensare la città, i Greci tracciano dunque il confine «tra utopia costruibile e utopia di fuga», traducendo mappe mentali in un paesaggio tangibile e abitabile con la consapevolezza che la disarmonia della lotta intestina (stasis) è sempre in agguato.
Ed è, ancora, sulla città come laboratorio utopico che si concentra il capitolo dedicato alla commedia (Acarnesi e Uccelli di Aristofane in particolare, vera proiezione celeste delle ateniesi dinamiche del potere). Anche qui il messaggio è chiaro: solo nel bilanciamento tra interesse del singolo e giustizia collettiva l’utopia trova spazio al di fuori della fiction teatrale. Il teatro può anche diventare il luogo simbolico della riflessione utopica e delle proiezioni democratiche, ma quando si guarda retrospettivamente al glorioso passato della città (Atene uscita vittoriosa dalle guerre contro la Persia, recente età dell’oro: una retrotopia di corto raggio), o alla città ideale degli Uccelli tra cielo e terra, la comicità che ne scaturisce è sintomo di un disagio che depotenzia l’illusione. Esso si ricompone solo nella pratica quotidiana della buona democrazia, non priva di difetti. Tale disagio può però anche degenerare nel disincanto, con conseguenti derive conservatrici quale sintomo – come in Aristofane – della «crisi dell’utopia». L’impasse è in agguato, e investe l’eredità politica più grande che Atene abbia consegnato al nostro immaginario: qual è la forma migliore di democrazia, quella oligarchica ed elitista che mira al mantenimento dello status quo, o quella dei demagoghi in cerca di consensi del demos?
Sulla stessa linea si muoverà la riflessione che Platone dedica alla città ideale (Repubblica e Leggi): ancora la polis, dunque, come qualcosa di realmente edificabile, o migliorabile. Il sogno, però, sembra non spingersi oltre: «tramontata la pólis, tramontò l’utopia». Concluso l’arco di maturazione di un processo, cala il sole dell’avvenire sull’orizzonte utopico dei Greci. Ma questo solido libro consegna, fra altre ottime cose, almeno un monito vitale di cui ognuno farà quello che crede (da studioso, lettore o polites, ‘cittadino’): «un futuro migliore è forse possibile, sembrano dirci i nostri Greci. Ma a prezzo di fatica. Senza troppe illusioni. E col rischio, sempre incombente, di fallire. Di questi tempi è una lezione dura».
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