Bellezza come valuta del patriarcato, standard irraggiungibili, diete assurde. Partendo dalla sua esperienza nell’industria beauty, Ellen Atlanta – che è stata co-fondatrice della testata Dazed Beauty –, raccoglie voci, dati e storie di vita ricomponendo un puzzle distopico, per un saggio che riflette su paradossi e bugie dell’era social
«Esistere come giovane donna oggi significa annaspare in un mare di paradossi», scrive la giornalista britannica Ellen Atlanta nel suo libro Pixel Flesh: How Toxic Beauty Culture Harms Women (Headline), uscito il 9 maggio in Gran Bretagna. Il saggio indaga le contraddizioni estetiche dei nostri tempi: inclusività, body positivity, perfezionismo dei social... Partendo dalla sua esperienza nell’industria beauty, Atlanta – che è stata co-fondatrice della testata Dazed Beauty –, raccoglie voci, dati e storie di vita ricomponendo un puzzle distopico. Il risultato è una visione dall’alto sulle pressioni a cui siamo sottoposte quando ci guardiamo allo specchio o scattiamo un selfie. Ma, soprattutto, è un invito a rivalutare la nostra unicità.
Quando ha iniziato a porsi le domande che l’hanno poi portata a scrivere il libro?
«Appartengo alla prima generazione cresciuta online. Ho utilizzato ogni tipo di social, ho scritto blog per tutta l’adolescenza, ho scattato, editato e caricato foto di me stessa. A un certo punto però, ho iniziato a riflettere su questo comportamento, sull’impatto sulla mia salute mentale, su cosa la bellezza significasse per me e mi sono accorta che sui media andava diffondendosi una bugia».
Quale?
«Le donne stanno andando bene, è arrivata la body positivity, c’è empowerment. E invece guardandomi attorno nulla era cambiato: stesse conversazioni su cosa non mangiare, sui trattamenti ai quali sottoporsi. Io stessa non mi sentivo per nulla empowered, ma confusa, persa, non ero capace di relazionarmi con il mio corpo».
Cosa intende quando usa l’espressione toxic beauty?
«Quelle due parole insieme esprimono bene la pressione che le donne sentono addosso per dover apparire in un certo modo – che il più delle volte è diverso da come si sentono nella realtà. Questa dicotomia non è un elemento banale: la cultura beauty fa parte di ogni aspetto della nostra vita, della società, è infusa nella nostra storia, nel razzismo, nel capitalismo, nell’abilismo, nell’accesso alle opportunità. Insomma, crea barriere molto reali».
Qual è il legame fra patriarcato e bellezza?
«Il patriarcato è un sistema di potere e la bellezza è una delle sue valute, soprattutto per le donne. Una valuta che possono scambiare per negoziare potere. Non vorrei etichettare in modo negativo le donne che usano la loro bellezza a questo scopo, perché si tratta di una risposta razionale a una cultura che ti dice che il tuo valore è legato a questa moneta. Non è un sistema da cui possiamo razionalmente capire come uscire. Prendi Kylie Jenner, donna miliardaria che si è liberata da questi standard normativi, ma allo stesso tempo contribuisce a consolidarli con i suoi 400 milioni di follower. Le Kardashian hanno tutto quello che, in teoria, serve: chirurghi, dietologi, personal trainer, eppure non postano un’immagine senza digital augmentation».
Cosa è cambiato con l’avvento dei filtri?
«Una cosa fondamentale: ora siamo noi a veicolare standard di bellezza irraggiungibili. Quando queste immagini provenivano dalla pubblicità, erano sui giornali o sui poster, potevamo imbatterci in loro, oppure no. Ora, invece, ne incontriamo a migliaia ogni giorno».
Ha raccolto moltissimi dati, quali l’hanno colpita di più?
«Quelli sulle diete mi hanno sconcertata: a dispetto di messaggi pervasivi sulla body positivity, fino al 70% delle adolescenti di età compresa fra 11 e 21 anni cerca di perdere peso, e la metà di loro lo fa cercando aiuto nelle sigarette o nei lassativi, oppure rimettendo. Un altro studio ha analizzato quanto le donne tendano a “frammentare” il proprio corpo, a vedersi come un’insieme di parti, mentre gli uomini percepiscono il loro come un’unica entità ed evidenziano quello che può fare. Nessuna donna ha dichiarato qualcosa di simile, tutte hanno parlato del proprio corpo come di un “oggetto” che ha solo un valore estetico».
Nel libro cita il panopticon effect. Che ruolo gioca nella sua analisi?
«Il concetto di auto-sorveglianza sviluppato dal filosofo francese Michel Foucault si manifesta nella quotidianità: le donne hanno introiettato ideali di bellezza e continuano a “misurare” il proprio volto e il proprio corpo per identificare ogni deviazione dall’ideale. La digitalizzazione ha fatto il resto: è sorprendente il numero di ragazze che dichiarano di sentirsi osservate costantemente. Prestano attenzione al modo in cui si siedono e si muovono, sempre all’erta nel caso in cui qualcuno le fotografi».
E quindi come si esce da questa trappola?
«È una domanda da un milione di dollari. Dobbiamo innanzitutto riconoscere le forze che agiscono contro di noi e resistere, resistere, resistere. Dobbiamo ricollegarci alla realtà del nostro corpo: quando ero piccola, per esempio, il fatto che mia madre avesse una pancia morbida mi dava una sensazione di comfort. Poi, quando parliamo di donne dovremmo cercare di non usare l’aspetto fisico come uno standard aureo. Invece di dirci quanto siamo belle o eleganti, dobbiamo cambiare registro. Riconoscere qualità morali – coraggio, gentilezza, intelligenza – è un passo da compiere per definire la bellezza sull’unicità, più che sull’omologazione. E quando incontriamo una donna per strada, sorridiamole, invece di squadrarla per giudicare il suo look».
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