«Donne inconsapevoli diventano prede di uno stupro virtuale», denuncia la scrittrice Carolina Capria, che ha portato alla luce il gruppo “Mia Moglie” dove immagini intime di donne inconsapevoli diventano oggetto di fantasia sessuale degli utenti
«Voi cosa le fareste?». «Sto notando che molte delle nostre mogli hanno tutte il culo più grande». «La mia ragazza vi dà la buona notte così». Sotto ogni post, il primo commento è una foto di una donna seminuda: gambe scoperte, fondoschiena in mostra, seno esposto. Foto rubate, occhi che non sanno di essere osservati. È il gruppo “Mia Moglie” su Facebook: 32mila uomini che condividono immagini delle proprie compagne, fidanzate, mogli per parlarne come se fossero oggetti, come se il consenso fosse un dettaglio inutile. Alcuni membri partecipano in forma anonima, altri con profilo reale, ma tutti contribuiscono a una dinamica inquietante: ogni fotografia diventa un invito alla volgarità, un pretesto per fantasie sessuali condivise in branco. «Oggi la trovate così» scrive un utente, in un post accompagnato dalla fotografia di una donna svestita in casa, sotto i commenti: «Io so cosa le farei», «Scopala», «La stuprerei io».
La vicenda è stata portata all’attenzione sui social dalla scrittrice e sceneggiatrice Carolina Capria, che sul suo profilo Instagram “L’ha scritto una femmina" ha scritto. «Ieri mi è stata segnalata l’esistenza di un gruppo Facebook di 32mila persone nel quale i membri si scambiano foto intime delle proprie mogli per commentarne l’aspetto in modo esplicito e dar voce alle proprie fantasie sessuali. Donne spesso inconsapevoli di essere fotografate per diventare prede di uno stupro virtuale».
Un caso che solleva questioni cruciali: quanto realmente consapevole e consenziente è la partecipazione delle donne ritratte? In un contesto di diffusione massiva online, il confine tra voyeurismo e violenza digitale diventa sempre più labile.
In Italia, la diffusione di immagini intime senza consenso è punita dall’articolo 612-ter del codice Penale, introdotto con la legge 19 luglio 2019, n. 69, nota come codice Rosso. La norma prevede pene da uno a sei anni di reclusione e multe da 5mila a 15mila euro. Aggravanti specifiche si applicano se il colpevole è il coniuge, l’ex o un convivente, oppure se il materiale viene diffuso tramite strumenti digitali o social network.
Recenti sentenze della corte di Cassazione hanno ampliato la tutela delle vittime. La sentenza n. 14927/25 ha stabilito che il reato di revenge porn sussiste anche quando le immagini sono inviate in forma anonima e senza sequestro del materiale. Proprio come nel caso del gruppo “Mia Moglie”. La sentenza n. 18473/2025 ha precisato che la condotta di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti si consuma nel momento in cui l’autore invia o diffonde il materiale, indipendentemente dal luogo in cui le immagini sono state ricevute
Le piattaforme social, pur disponendo di strumenti di moderazione, faticano a intervenire efficacemente in questi casi. Denunce come quella di Carolina Capria sono essenziali per aumentare la visibilità di comportamenti che, pur diffusi, rimangono spesso invisibili ai media tradizionali. Dopo il post della scrittrice, il gruppo ha ricevuto una serie di segnalazioni ma resta ancora online.
Il quadro italiano prevede anche il supporto del Garante per la protezione dei dati personali, cui è possibile rivolgersi per chiedere la rimozione o la deindicizzazione dei contenuti, oltre alla possibilità di procedere legalmente tramite querela. Tuttavia, la lentezza delle procedure e l’inevitabile visibilità dei contenuti online rendono complessa la tutela completa delle vittime
Nonostante la normativa, la pratica di creare e alimentare spazi come “Mia moglie” evidenzia il ritardo culturale e sociale nel riconoscere le implicazioni di questo comportamento. Per le donne ritratte che non sanno di essere fotografate o non hanno dato il consenso a una diffusione pubblica, ciò si traduce in una sorta di «stupro virtuale», come dimostrano diversi studi: con danni psicologici profondi, perdita di fiducia, vergogna e isolamento. «Le donne sono merce di scambio, e servono solo a stabilire rapporti tra uomini. Questi uomini stabiliscono legami gerarchici e sodalizi, utilizzando il corpo delle donne. Le donne sono lo strumento attraverso cui definiscono la loro maschilità. E lo stupro virtuale un rito» scrive Capria.
Ma c’è un altro livello: dietro al gruppo “Mia moglie” si nasconde una dimensione culturale di possesso e oggettificazione: «Il caso di Gisèle Pelicot non è un'anomalia nel sistema. Un uomo che è convinto di poter disporre della propria moglie e per il quale la sessualità è legata a doppio filo alla sopraffazione, è il sistema. Perché è così che educhiamo gli uomini. A riconoscersi in una maschilità che conquista, espugna, occupa. Non riesco a smettere di pensare a cosa significhi per una ragazza/donna scoprire di essere finita su un gruppo del genere (ce ne sono decine e decine), di essere "scambiata", di essere messa in piazza, ceduta», ha spiegato la scrittrice Capria «E rendersi conto che a fare questa cosa non è stato un estraneo (ci siamo abituate a questa possibilità, abbiamo imparato a farci i conti e andare avanti) ma un fidanzato, un marito, un compagno. Il mondo che si rompe in mille pezzi».
Nessun commento:
Posta un commento