Avete mai pensato che chi fa il male perlopiù dice bugie – deve giustificarsi! – mentre chi fa il bene è sincero, non ha cioè motivo per non esserlo? Guardiamo ai personaggi della Divina commedia: quando è che sono sinceri, parlando con Dante? Nell’ Inferno non lo sono mai: non fanno che autoassolversi, puntare il dito contro qualcuno, coprirsi reciprocamente di infamia, chiedere a Dante di essere perdonati o vendicati. In genere danno di sé un’immagine sublimata (e perciò falsa). Paolo e Francesca sono falsi amici di Dante (in particolare lei, che si sente innocente, riesce a incantarlo), Farinata è un uomo di parte che tenta di farsi passare per patriota, Ulisse si presenta come eroe della conoscenza mentre è uno spirito ingannatore animato da una hybris senza limiti. Tutti maledicenti e divorati dal rancore. In un certo senso abitano da sempre l’inferno! La attendibilità dei personaggi danteschi è proporzionale “alla loro capacità non di maledire ma di benedire l’esistenza”, trasformando l’odio in visione d’amore.
Questo illuminante notazione morale la ritrovo in Sebastiano Villani, Dante per immagini in Basilicata, e altri saggi iconografici (Dell’Orso), un volume corposo, ricco di illustrazioni, che sembrerebbe destinato agli specialisti ma si rivolge a ogni lettore. Un saggio mirabile, fatto di acume interpretativo, attraversamento di linguaggi diversi, semplicità espositiva, e amore – lo dico rischiando di apparirvi retorico – per Dante e per la propria terra. Il suo metodo “indiziario”: il gusto iconografico, ma anche la relazione tra studio delle opere e urgenza dei nostri dilemmi (direi una filologia morale), mi ricordano certi saggi ariosi, eruditi e insieme militanti di Carlo Ginzburg. Con un singolare cortocircuito di alto e basso, di pop e studi accademici: Beckett e De Andrè, Singleton e Caparezza, Borges e Milo Manara. Partendo da quadri, affreschi, pale d’altare e anche murales recenti trovati in paesi e borghi della Basilicata, l’autore prova a intrecciare un filo critico-narrativo intorno ad alcune scene dantesche e alla loro ricezione, sempre sotto la guida del suo illustre compaesano (entrambi di Stigliano, Matera), l’illustre dantista Rocco Montano, il primo che ci ha fatto notare che personaggi come Francesca e Ulisse commuovono certo il Dante-pellegrino, tuttavia dal Dante-autore sono inequivocabilmente messi all’inferno.
L’ispirazione di Montano resta fondamentale, proprio per la sua lettura antiromantica di Dante, per l’attenersi a una visione cristiana (e cattolica) che funziona da preziosa bussola morale contro il relativismo nichilista. Bene e male sono intrecciati, anche nelle singole persone, ma il bene è bene e il male male. Altrimenti si finisce nel caos. E il male, lungi dall’essere fascinoso, è solo raggelante, e infine noioso, impoverisce la nostra esperienza del mondo. In ciò il suo Dante va usato come antidoto contro l’intera cultura della modernità imbevuta di gnosticismo, dell’idea cioè tenebrosa che la vita consista in una maledizione. Mentre il realismo cristiano, perfino in Caravaggio, ci fa sempre immaginare la possibilità della luce perfino in un magazzino buio dove si conta il denaro.
Forse le pagine più controcorrente sono quelle dedicate alla coppia, sullo sfondo di un commento alla scena della Caduta, del peccato originale, un motivo presente nella Commedia ma che percorre la storia letteraria e pittorica dell’Occidente. Contro tutti gli spregiatori della coppia, contro i menagrami che condannano ogni relazione a un esito distruttivo (il disordine dell’eros), Adamo ed Eva nel Paradiso perduto di Milton, pur banditi dall’Eden, ne escono tenendosi per mano, volendo coraggiosamente continuare a vivere dopo la Colpa! Immagine di una coppia unita e concorde, proiettata verso il futuro, che Villani ritrova in una lunga tradizione iconografica. La stessa coppia sarà duplicata in Renzo e Lucia (con la loro folta prole), in Franco e Luisa del Mondo antico di Fogazzaro, nella scena finale di Tempi moderni di Chaplin, e nell’ultima scena di Eyes wide shut di Kubrick. E certo Milton ha intuito che Dante ha messo molto della moglie Gemma in Beatrice: ad esempio quando Beatrice guarda con sorridente severità al comportamento assurdamente infantile di Dante…
Alla fine Villani si chiede se Dante sia stato un supereroe. Provo a rispondere. No, piuttosto Dante è un uomo comune precipitato nella selva, come potrebbe accadere a chiunque di noi, e poi trascinato verso l’alto (accolto in paradiso da una pioggia luminosa che lo porta verso l’alto). Va bene, quello di Dante è un destino eccezionale, scandito da folgorazioni mistiche e investiture profetiche. Qualcuno ha osservato infatti che mentre l’autobiografismo in sant’Agostino ha un valore esemplare – un modello che altri possono replicare – l’autobiografismo di Dante riguarderebbe un autore (e personaggio) che non si può imitare in quanto “eletto”. Vero, però si potrebbe a sua volta obiettare che Dante è sì un eletto, un privilegiato, tuttavia ha – come san Paolo (vedi la Seconda Lettera ai Corinzi) – una istintiva reticenza, un pudore a mostrarlo, in quanto sente che in tale privilegio c’è violazione della uguaglianza creaturale. E soprattutto: su di lui è discesa la grazia, però senza alcun merito personale, indipendentemente cioè dalla sua qualità letteraria o dalla sua dirittura morale, così come la grazia può scendere, misteriosamente, su chiunque.
Dunque: a essere “eccezionale” non è qui propriamente l’individuo (che resta comune – un everyman – non eroico né speciale, con le sue paure ed esitazioni) ma proprio il fatto della grazia, un dono divino, imperscrutabile, che può trasmettersi in ogni momento a ciascuno di noi, a prescindere dai suoi meriti e che, certo – particolare questo decisivo per Dante – va accolta con il cuore e la mente sani. Nel teologo Romano Guardini leggiamo: “un pensiero profondo nella Commedia assimila il male alla pesantezza. Diventare cattivi significa pesare”. Dante, pur così distante da noi e avverso alla modernità degli scambi commerciali, è di una attualità sorprendente. In ogni verso rivolge un appello urgente al lettore, alla sua capacità di “convertirsi” a una vita nuova. Cedere al male è sprofondare verso il basso, non solo sotto il peso delle proprie rancorose bugie, ma perché chi non dà realtà agli altri poi la realtà la trattiene tutta in sé, in eccesso, e diventa intollerabilmente pesante. Il suo io è sovrappeso.
Infine, una osservazione di Villani sulla Torre di Babele, da meditare in tempi di guerre e brutali invasioni: la confusione babelica delle lingue non è tanto la pluralità degli idiomi umani (in sé naturale) quanto – anche nella rappresentazione dantesca – mortale contrapposizione di ideologie e progetti politici.
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