La voce di Nicola Macchione arriva puntuale e controcorrente, non perché urli, ma perché guarda il punto esatto in cui la cultura inciampa sul corpo degli uomini. Urologo e divulgatore scientifico, seguito da 160mila follower su Instagram, è una figura anomala nel panorama sanitario italiano: non si limita a curare patologie dell’apparato genito-urinario maschile, si occupa di raccontare come la cultura le crea, le camuffa, le aggrava. Classe 1980, nato e formato in Italia, oggi divide il suo lavoro tra ambulatorio, comunicazione pubblica e progetti di sensibilizzazione sulla salute sessuale e riproduttiva. È uno dei pochi specialisti che ha deciso di portare l’urologia fuori dal lessico delle barzellette e dentro quello dei diritti, dell’educazione e della prevenzione.
A Resistenze, Macchione parla di mascolinità non come di un accessorio identitario, ma come di un termometro rotto: «Fin quando non cambieremo il modello culturale, non avvicineremo il maschio alla salute». Perché nella grammatica dei maschi la vulnerabilità non è un sintomo, ma una colpa. «Il maschio è perfettamente funzionante, fino a prova contraria: non ha bisogno di curarsi perché funziona».
E così il corpo diventa una questione marginale, un affare lasciato alla mitologia della forza: non si nomina, non si controlla, non si racconta. Macchione parla di uomini che riducono il controllo a una resa simbolica: controllarsi significa tradire l’epica virile di un paese educato a non piangere. «Si fa fatica ad avvicinarsi a un modello di prevenzione», il risultato sono diagnosi rinviate, fertilità escluse dal vocabolario, malattie diventate barzellette perché la psiche non sopporta l’evidenza. E quando il danno è scoperto, arriva la rabbia più amara: quella contro sé stessi.
Tutto ciò che rimuoviamo, nel linguaggio e nelle istituzioni, torna come un destino collettivo. E se la newsletter ha un senso, è proprio dare voce a chi chiama le cose con il loro nome quando nessuno vuole farlo. Macchione lo fa con un’urgenza secca, rivolgendosi soprattutto ai ragazzi, gli unici che possono ancora interrompere la catena dei non detti: «Siate curiosi di voi stessi, del vostro corpo e di quello degli altri, ma in modo positivo». Non un invito, quasi un ordine del giorno.
Quando parliamo di mascolinità fragile, parliamo di uomini fragili o di un modello culturale che non funziona più?
Parliamo soprattutto di un modello culturale dicotomico del maschile. Da una parte c’è il maschio “tradizionale”, quello che si riconosce nel “malessere” e rappresenta una zona di comfort perché ricorda la figura del padre, del nonno, che magari mettevano in atto atteggiamenti tossici ma addolciti dalla “familiarità”. Dall’altra c’è un maschio nuovo, più aperto, fluido, emotivamente presente. Entrambi sono figli della stessa società, ma il secondo destabilizza il primo. Perché non offre certezze, mettendo in discussione l’idea con cui molti sono cresciuti. Oggi convivono, spesso in conflitto, un modello conservatore e uno progressista.
In che modo gli stereotipi legati alla virilità influenzano le scelte di salute degli uomini?
È tutta una questione culturale. Fin quando non cambieremo il modello culturale, non avvicineremo il maschio alla salute. Il maschio è perfettamente funzionante, fino a prova contraria: il maschio che non ha bisogno di curarsi perché funziona. Il corpo dell’uomo è un corpo lasciato a sé stesso. Durante la pubertà e l'adolescenza il corpo del maschio, anche clinicamente, non è più nella cura del pediatra, ma nemmeno in quella del medico di medicina generale. Non esiste una reale figura di riferimento. Esiste una questione ampia che tiene lontano il maschio dal fare i controlli perché questi aprono a una vulnerabilità che non trova spazio in un modello culturale dove esiste solo la forza. Sei cresciuto in un mondo in cui non devi piangere: quando cadi, ti rialzi. Si fa fatica ad avvicinarsi a un modello di prevenzione.
Molti uomini rimandano le visite mediche anche quando riconoscono dei sintomi. Lei lo vede nel suo lavoro?
Molto spesso tendono a sottostimare i sintomi o i campanelli di allarme, perché questo mette in discussione aree della propria virilità, o almeno quello che loro pensano sia la virilità. I primi disturbi di erezione, eiaculazione, sangue nello sperma o nelle urine si tralasciano dicendo: «Tanto è il momento», «sono stressato». Invece potrebbe essere qualcosa di più serio, e questo vuol dire ammettere di essere vulnerabili. Poi c’è la questione del tempo. Siamo una società convinta di essere eterna: «Tanto lo faccio domani», «non è il momento». I maschi pensano sempre che non sia mai il loro momento per avere un problema.
Quali sono le conseguenze fisiche e psicologiche del «non posso mostrare debolezza»?
Rimandare controlli, tutta una serie di check sanitari, comporta poi ritrovarsi a un’età avanzata con un quadro di infertilità di cui non si è preso né atto né cura. Un varicocele che negli anni, magari, ha causato una riduzione del volume testicolare e da lì un ridotta qualità del liquido seminale, per poi ritrovarsi a combattere con l’infertilità. Un deficit erettivo che nascondeva un problema cardiologico: il pene non è altro che la lancetta del cuore. Oppure il sangue nelle urine o nello sperma può nascondere un’infezione nelle vie urinarie. In teoria, rimandare può avere un impatto sulla salute, anche mentale: quando scopri che la tua fertilità è andata a male perché hai preso una clamidia che non hai curato, un po’ ti arrabbi con te stesso.
Ha citato diversi sintomi. Esistono alcune malattie maschili che, più di altre, diventano tabù perché colpiscono proprio l’idea di mascolinità?
Una delle principali è il deficit di erezione, come i disturbi di eiaculazione: l’idea di ammettere di eiaculare troppo presto rispetto al piacere della partner o del partner. O la comparsa di curvature o anomalie a livello genitale. Questo mette a dura prova la psiche dei maschi, che collegano la propria virilità all’organo genitale. L’organo genitale è un po’ l’archetipo della virilità maschile. Noi cresciamo con l’idea di essere un tutt’uno, e quando comincia a modificarsi, questo impatta sulla psiche della persona ma anche sul mettere in discussione la propria mascolinità.
Perché temi come il pene, i testicoli, la fertilità o la disfunzione sessuale sono ancora così difficili da affrontare pubblicamente?
Perché culturalmente facciamo fatica a nominarli. In pubblico per gli organi genitali vengono sempre usati dei nomignoli, mai il loro nome reale. Da adulti parliamo di “cazzo”, “minchia”, “ciolla”, ma raramente di pene. Trasfiguriamo il linguaggio con metafore, ortaggi, battute: è un modo per evitare il pudore o il doverci realmente ragionare. La barzelletta è socialmente accettabile, il discorso serio no. Perché parlare seriamente del pene implica riconoscere che esiste, che è nostro e che dobbiamo prendercene cura. Con la pornografia il tema si è complicato: molti uomini sentono di avere un organo che non corrisponde a quello che “dovrebbe essere”. Studi ci dicono che oltre il 50 per cento è insoddisfatto delle dimensioni, mentre l’85 per cento delle partner si dichiara soddisfatta. Questa distanza tra immaginario e realtà spiega perché la chirurgia estetica genitale sia in crescita esponenziale.
In che modo la mancanza di educazione sessuale nelle scuole incide sulle malattie sessualmente trasmissibili tra i giovani, ma anche sulla consapevolezza del proprio corpo?
Ha detto bene: l’educazione sessuale dà consapevolezza del proprio corpo, del rispetto di questo, e porta a conoscere le varianti che il tuo corpo avrà. Ti insegnerà che esistono tantissimi peni e vulve, che non esiste solo il pene come organo sessuale, ma il cervello, che è molto meglio. L’educazione sessuale dà gli strumenti per vivere una vita adeguata nel rispetto della salute del proprio corpo e di quello altrui, perché insegna i limiti e i confini delle relazioni.
Come si può insegnare agli uomini che chiedere aiuto non toglie nulla alla loro identità, ma la salva?
Gli uomini non chiedono aiuto perché non hanno idea di avere bisogno di aiuto. Proiettano i propri deficit sui partner, ed è una tendenza comune. Ricordo quest’uomo che additava la moglie come responsabile di averlo lasciato, nonostante fosse un buon padre di famiglia, solo perché lei non era contenta della sua eiaculazione precoce. Ovviamente ho dovuto lavorarci, facendogli capire che il problema non fosse l’eiaculazione precoce, ma l’essere una persona che faceva sesso solo il mercoledì, in quella fascia oraria, per 20 anni. Il tema era: «Trovo un capro espiatorio perché non voglio ammettere che sono io a non andare bene».
Se dovessimo ripensare la mascolinità in chiave di salute, quali sarebbero le tre cose da cambiare subito?
L’educazione: fare un protocollo educativo e affettivo già a scuola. Insegnare ai maschi che hanno un medico di riferimento: prima il pediatra, poi il medico di medicina generale, poi lo specialista. Il nostro sistema sanitario è straordinario: ha il medico di base come referente, confessore. Se ci sono cose che ritengo stupide e non riesco ad affrontare con i miei genitori, posso parlarne con il pediatra. Se posso comprarmi la felpa da solo a 14 anni, posso anche rivolgermi al medico. E poi ricordarsi di controllare il proprio corpo, prendersene cura, imparare ad ascoltarlo.
Qual è il messaggio più urgente che vorrebbe far arrivare ai ragazzi che cresceranno senza educazione alla vulnerabilità e al sesso sicuro?
Siate curiosi di voi stessi, del vostro corpo e di quello degli altri, ma in modo positivo. Siate curiosi di tutto ciò che la vita vi offre e non fermatevi al primo stereotipo che vi propongono, qualunque esso sia.

Nessun commento:
Posta un commento