Cioma l’ha scritto sulla sua pagina Facebook: «Fiera di essere una livornese nera». Alla faccia dei razzisti. Uno e ottantacinque, gambe mozzafiato, sorriso tenero da sedicenne. Molti non hanno digerito l’anno scorso l’elezione a Miss cittadina d’una figlia di immigrati nigeriani (papà disoccupato, mamma dipendente di una casa di riposo). E hanno infiammato il web col solito mantra truffaldino, «l’Italia agli italiani», sparso come veleno da mille manine solerti.
Il sindaco Filippo Nogarin s’è schierato con Cioma, ammonendo: «Questo episodio gravissimo non rappresenta Livorno». Certo. Città di mare a misura d’uomo, difficile immaginare nelle sue strade cappucci del KKK. Ma su 116 capoluoghi di provincia, Livorno è anche in testa alla classifica della «precarietà sociale», quella dei comuni italiani dove l’integrazione è più in pericolo. Seguita da Cremona (teatro a gennaio dipesanti tafferugli tra antagonisti e fascisti) e da La Spezia. Ecco dunque l’ultima graduatoria elaborata dalla Fondazione Leone Moressa, che già nel 2014 aveva preso in considerazione i capoluoghi di regione, rivelando il paradosso secondo cui il «rischio banlieue» è più elevato nella ricca Bologna che nella povera Reggio Calabria (in realtà il capoluogo calabrese sarebbe Catanzaro), a testimoniare un modello di sviluppo metropolitano miope ed egoista.
Meno integrazione al Centro-Nord che al Sud
Adesso, per il Corriere , la Fondazione mette sotto esame l’intera Penisola con un’indagine molto più capillare e un campione molto più vasto. Incrociando indicatori come il tasso d’acquisizione della cittadinanza, quello della disoccupazione straniera, il differenziale Irpef tra autoctoni e non, le percentuali straniere sui delitti e sui detenuti, i livelli di servizi e interventi dedicati, si delineano quattro aree: inclusione sociale, integrazione economica, criminalità, spesa pubblica per l’immigrazione. Elaborandone i valori ne deriva un numero-spia: il tasso di precarietà sociale, appunto. Fatta 100 la media d’Italia, Livorno è a 130,9. Bologna a 124 e Reggio Emilia a 122. Trieste e Trento a 123. Napoli a 76,7.Reggio Calabria, ancora in coda, a 65,3. La classifica delinea picchi di mancata integrazione al centro-nord e nelle cittadine medio piccole. Il modello emiliano e la retorica dei mille campanili sono da rivedere, forse, ammoniscono i sociologi cui chiediamo di commentare la ricerca.
La “sorpresa” di Bologna, Trento e Trieste
«Il dato strutturale dell’Irpef ovviamente pesa molto, col suo delta tra nord e sud, tremila a Bologna, mille e rotti a Reggio Calabria», premette Mario Abis, partner di Renzo Piano nel gruppo G124 inventato dal grande architetto per «rammendare» le periferie italiane: «Ma c’è un secondo dato di rilievo. Fino a tutti gli anni Ottanta venivano dall’estero a studiare l’Emilia Romagna, rossa e aperta. Ora scopriamo che lì c’è il conflitto. L’abitudine all’integrazione sociale è tutta interna. Di fronte alla pressione esterna dell’immigrazione, questo mondo diventa chiuso e conservatore. Il terzo dato è che le città più “smart”, come Trento e Trieste, hanno molta precarietà sociale».
Città «smart», intelligenti, sarebbero quelle capaci di sguardo lungo sul futuro, di miscele felici tra ambiente, tecnologie, servizi e governo locale: un altro paradosso, dunque. «Queste città sono molto “densificate” - spiega Abis - molto legate alla cultura d’appartenenza. Entrano in difficoltà di fronte ai flussi esterni. Nelle aree metropolitane il fenomeno sfuma un po’, c’è un cosmopolitismo di necessità e, spesso, un’immigrazione già di seconda o terza generazione, già in parte assorbita: questo spiega perché Milano, con i suoi cinesi e filippini, sia in una posizione intermedia nella classifica».
Città «smart», intelligenti, sarebbero quelle capaci di sguardo lungo sul futuro, di miscele felici tra ambiente, tecnologie, servizi e governo locale: un altro paradosso, dunque. «Queste città sono molto “densificate” - spiega Abis - molto legate alla cultura d’appartenenza. Entrano in difficoltà di fronte ai flussi esterni. Nelle aree metropolitane il fenomeno sfuma un po’, c’è un cosmopolitismo di necessità e, spesso, un’immigrazione già di seconda o terza generazione, già in parte assorbita: questo spiega perché Milano, con i suoi cinesi e filippini, sia in una posizione intermedia nella classifica».
Più integrazione dove ci sono più donne
«Significativo, e confortante, è che c’è più integrazione dove più alta è la percentuale delle donne», dice il sociologo Domenico De Masi: «L’elemento ovvio è che l’immigrato al Sud si integra non perché sta meglio ma perché i meridionali stanno peggio, è povero fra i poveri. In un’economia marginale lo sfruttamento diventa poi la sua integrazione, come a Castel Volturno, dove gli stranieri sono trattati come schiavi nelle piantagioni razziste». Al centro colpisce Rieti, «l’ombelico d’Italia», cinquantamila anime nel cuore della paciosa Sabina, eppure al quarto posto nella classifica di precarietà sociale a causa degli alti tassi di disoccupazione degli stranieri (16 per cento contro il 13,9 nazionale) e della loro forte incidenza sul numero dei detenuti (67,2 contro il 32,6 di media nazionale). «La ricerca è fatta bene e prende anche le “isole” - sostiene De Masi - nessuna microarea può dirsi immune. Il paradosso è che le zone più rischiose sono spesso quelle più civiche. L’egoismo nazionale taglia le spese sui migranti, decurtate anche dai vari Buzzi, perché abbiamo visto a Roma che quei pochi soldi spesso vengono rubati. Già si sapeva che i ricchi sono più escludenti dei poveri. Ci illudevamo che, essendoci formati su matrici cristiane e marxiste, fossimo più accoglienti: ma spesso è l’opposto».
Scuola, educazione, spesa pubblica per l’integrazione
Abis ci sta lavorando su. Collabora col governo a una delibera-cornice per i piani strategici delle nostre dodici città metropolitane (a Londra esiste da tempo un piano che guarda fino al 2065, noi fatichiamo a immaginare il futuro): «Se questa precarietà sociale non la inseriamo nei modelli strategici, la vediamo solo quando c’è già. Noi dobbiamo prevedere, prevenire». Come? «La risposta sta nell’ultima colonna della ricerca: con la spesa», sbotta De Masi. «Scuola, educazione, spesa pubblica per l’integrazione», dice Abis. Spesa pubblica di questi tempi è una parolaccia. Ma in ballo ci sono fondi europei, a saperseli guadagnare. E c’è l’onore d’Italia. Perché italiani come Cioma non debbano vergognarsi della loro patria.
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