Credo sia stato Alberto Asor Rosa, nel lontano 1977, il primo a parlare dell'Italia come di una società in cui convivevano, o meglio si contrapponevano e si scontravano, “due società”. Asor Rosa lo faceva, dalle colonne dell'Unità, reagendo vigorosamente (e coraggiosamente, dato il clima violento e intimidatorio dell'epoca) a un episodio che segnò profondamente la storia della sinistra negli anni '70: l'assalto, da parte del movimento studentesco e dei circoli proletari giovanili, al palco da cui Luciano Lama, segretario generale della Cgil, tentava di tenere un comizio.
Fu solo in quella circostanza che la sinistra prese coscienza, in tutta la sua drammaticità, della frattura che si era creata fra il mondo dei produttori, difesi e garantiti dal sindacato e dal Partito Comunista, e il variegato mondo degli esclusi, “fatto di emarginazione, disoccupazione, disoccupazione giovanile, disgregazione” (così lo descriveva Asor Rosa), privo di rappresentanza, sostanzialmente estraneo al mondo del lavoro, talora per necessità, spesso per scelta (sono gli anni del “rifiuto del lavoro”, dell'allergia al “posto fisso”, del primato dei “bisogni” più o meno proletari, come documenta una sterminata letteratura sociologica sulla condizione giovanile).
Fra la prima società (quella dei produttori) e la seconda (quella dei marginali) Asor Rosa opta risolutamente per la prima, vista come la sola capace di far uscire l'Italia dalla “crisi”. Da allora molta acqua è passata sotto i ponti, e della divisione della società italiana in una Prima e una Seconda società non si è mai smesso di parlare, anche se in forme e con intenzioni diverse. La dicotomia di Asor Rosa, infatti, non sorgeva dal nulla, ma si innestava su un filone di ricerche che risaliva almeno alla fine degli anni '60, quando si cominciò a discutere del “dualismo” del mercato del lavoro italiano. Per gli studiosi del mercato del lavoro la frattura non era esattamente quella, molto politica, messa a fuoco da Asor Rosa, ma quella, soprattutto economica, fra le fasce forti e le fasce deboli dalla popolazione: da una parte i lavoratori maschi adulti (o “nel fiore dell'età”, come allora ebbe a descriverli l'economista Marcello de Cecco), dall'altra i giovani, le donne e gli anziani, tendenzialmente esclusi dal mercato del lavoro in quanto meno produttivi.
Poco per volta, tuttavia, anche la letteratura sul mercato del lavoro ha preso una piega un po' diversa. Più che sull'esclusione, si è insistito sulla piaga della precarizzazione, contrapponendo agli occupati garantiti, insediati in posti di lavoro sicuri, a tempo pieno, e protetti dai sindacati, il vasto arcipelago delle occupazioni a termine, prive di tutele e di stabilità, tipicamente riservate ai giovani e alle donne. La Seconda società, insomma, nel giro di venti anni ha cambiato pelle: all'inizio della storia (anni '60) era la società degli esclusi, ma con il trascorrere dei decenni è diventata la società dei precari.
Io penso sia venuto il momento di prendere atto che, nell'Italia come è diventata in questi anni, di società non ne convivono due ma tre. C'è la Prima società, o società delle garanzie, fatta di dipendenti pubblici inamovibili e di occupati nelle grandi fabbriche, tutelati dai sindacati e dagli ammortizzatori sociali. C'è la Seconda società, o società del rischio, fatta di partite Iva, artigiani, piccoli imprenditori e loro dipendenti più o meno precari, accomunati dalla esposizione alle turbolenze e ai capricci del mercato. E c'è la Terza società, o società degli esclusi, fatta di lavoratori in nero (spesso immigrati), disoccupati che cercano attivamente un'occupazione, lavoratori scoraggiati che il lavoro non lo cerano solo perché hanno perso la speranza di trovarlo.
La novità è che, nel corso del 2014, le dimensioni della Terza società sono per la prima volta nella storia d'Italia divenute comparabili a quelle delle altre due: dieci milioni di persone, più o meno quante ne contano la Prima e la Seconda società. La grande svolta, secondo la ricostruzione storico-statistica della Fondazione David Hume, sembra essere intervenuta fra il 2004 e il 2007, giusto un istante prima dell'esplosione della grande crisi del 2007-2014. È allora che il tasso di occupazione delle fasce deboli (giovani e donne) ha cominciato a perdere colpi.
È allora che il peso della Terza società ha cominciato a salire vertiginosamente, a colpi di mezzo milione di persone in più ogni anno. Ed eccoci, alla fine di questa triste galoppata, ad occupare la terz'ultima posizione fra i 34 Paesi Ocse: solo in Grecia e in Spagna la Terza società è più ampia che da noi (vedi grafico di sinistra).
Si potrebbe congetturare che, in fondo, il peso abnorme della Terza società sia una delle tante anomalie che all'Italia derivano dalla sua anomala storia economico-sociale: l'unità nazionale tardiva, il fascismo, l'industrializzazione accelerata degli anni '50 e '60. Ma questa lettura è incompatibile con i dati.
Se andiamo indietro nel tempo, e ci chiediamo come stavano le cose mezzo secolo fa, fra la fine degli anni '50 e l'inizio degli anni '60, scopriamo che allora il nostro tasso di attività era, a differenza di oggi, perfettamente allineato a quello degli altri paesi (vedi grafico di destra). Su 24 economie di mercato, 12 avevano un tasso di attività più elevato del nostro, ma altrettante ne avevano uno più basso. Il che suggerisce che, allora, nel nostro Paese non si era ancora installata quella drammatica mancanza di posti di lavoro che è il più importante indizio con cui la Terza società segnala la propria presenza. La Terza società non è un retaggio del passato, ma un tratto distintivo dell'Italia contemporanea.
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