Più di venticinque anni fa Umberto Bossi, allora unico parlamentare della Lega, mi provocò dicendo che insieme (lui scopritore del localismo politico, ed io cultore del localismo economico) avremmo insieme potuto fare grandi cose. Non se ne fece nulla, considerati anche i troppi diversi nostri circuiti mentali; ma quella provocazione era intelligente, partiva dalla previsione che senza una loro intensa integrazione i due localismi sarebbero andati ognuno per proprio conto, perdendo ogni ambizione e disegno di sistema; e che a pagarne il prezzo sarebbe stato il localismo politico, progressivamente prigioniero delle sue dinamiche di ripiegamento territoriale e di egoismo localistico.
Non c’è dubbio infatti che il localismo economico, quello esploso negli anni Settanta e Ottanta nelle nostre tante vitali periferie (Prato, Valenza Po, Biella, Sassuolo, Montebelluna, Carpi, Fermo, ecc.) ha saputo lucidamente evolversi strutturandosi via via in distretti, in patti e contratti di filiera, in strategie complessive di «area vasta»; superando con tenacia qualche difficoltà, e qualche ubriacatura di successo, e tenendo sempre il rapporto fra lavoro e rischio imprenditoriale a funzionare da sistema nervoso di tutti i soggetti e comportamenti collettivi.
La stessa cosa non è avvenuta nel localismo politico, che sapeva di partire da microlocalità ma che pensava al federalismo come istituzionale condensazione dei frammentatissimi interessi locali. F inito il sogno del federalismo i territori sono stati lasciati alla loro singola dinamica, senza neppure più i vincoli di appartenenza politica, partitica, ideologica che nei decenni precedenti li avevano tenuti collegati alla dimensione nazionale. Il localismo politico è diventato ed è oggi la palude di tutti i problemi e di tutte le pulsioni squisitamente territoriali e localistiche, espresse peraltro in termini dialettali e vernacolari, spesso beceri. Nascono i «cacicchi»; si formano cordate di gestione puramente clientelare; si governa per pacchetti di voti; si decidono flussi di risorse (dai fondi europei al finanziamento di un welfare sempre più comunitario) calibrati sul potere delle clientele locali; la stessa spesa istituzionale (per il funzionamento degli organi statutari) viene asservita a mediocri giuochi di localismo associato. Non c’è nessuna tensione di responsabilità verso i problemi esterni agli intrecci di potere localistico; ed alla fine non è esagerato dire che il localismo politico sta uccidendo la politica: sia quella operante localmente, sia quella nazionale se è vero che oggi in tante regioni del Paese i partiti non esistono più, si appiattiscono alle regole affaristiche (e/o elettorali) dei potenti circuiti locali.
Occorre quindi non lasciare il localismo politico a macerarsi in dinamiche tutte regressive, e a far marcire la vita politica nel suo complesso. Ed è la politica nazionale che deve darsi carico del problema, perché è proprio lei che rischia di essere la grande vittima del trionfo di un localismo politico sapiente e furbo, sfrontatamente sicuro che la politica nazionale non può in questo caso usare l’arma «assoluta» della verticalizzazione delle decisioni e dei poteri (riusciva a Giolitti ed ai suoi prefetti ma non sembra un esempio da seguire). Bisogna allora avere l’umiltà di ripartire dai «fondamentali» della politica, in particolare dal rilancio dei meccanismi e dei soggetti di rap-presentanza degli interessi e delle identità collettive. Non è richiamo alla moda, di questi tempi, ma sempre meglio che restare prigionieri degli scandali sui cacicchi e delle lotte al calor bianco sulla destinazione dei migranti.
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