martedì 30 giugno 2015

SOCIOLOGIA E MIGRAZIONI. R. MAZZEO, Richard Sennett dentro la corrosione del legame sociale, IL MANIFESTO, 30 giugno 2015

Richard Sen­nett è stato recen­te­mente ospite del Pre­mio Heming­way, giunto alla tren­tu­ne­sima edi­zione, per la sezione “Avven­tura del Pen­siero” a Lignano Sab­bia­doro, una sorta di anti­ci­pa­zione di «Por­de­no­ne­legge».




È un uomo molto gen­tile e riser­vato, que­sto socio­logo set­tan­ta­duenne carat­te­riz­zato da una schiera di ammi­ra­tori che in tutto il mondo atten­dono ogni volta con ansia che esca un suo nuovo libro. Forse per­ché cen­tel­lina i suoi volumi, visto che il terzo libro del suo pro­getto «Homo faber», una tri­lo­gia ini­ziata nel 2008 con L’uomo arti­giano e pro­se­guita nel 2012 con Insieme. Rituali, pia­ceri, poli­ti­che della col­la­bo­ra­zione (entrambi pub­bli­cati da Fel­tri­nelli), si con­clu­derà forse nel 2016 con il libro sulle città e ha avuto una sola inter­pun­zione, un pic­colo libro tito­latoLo stra­niero pub­bli­cato sem­pre da Fel­tri­nelli. O forse per­ché nei suoi libri, mai sem­plici, si ritrova l’arte dell’artigiano che rac­co­manda e di cui è mae­stro: forma e rigore rav­vi­vati da qual­che con­trap­punto di iro­nia che non scon­fina però nella bru­ta­lità o nella risata beffarda.
Si per­ce­pi­sce dal suo stile un amore pro­fondo per l’«umano». E tra­spare anche dalla sua rilut­tanza a rila­sciare inter­vi­ste fret­to­lose: par­lare dei destini del mondo in due minuti è irri­spet­toso non solo per chi è chia­mato a farlo dall’alto del suo magi­stero ma anche per i lettori.
Nei suoi libri si è molto dilun­gato sulle carat­te­ri­sti­che del «nuovo capi­ta­li­smo», met­ten­done in evi­denza il loro lato oscuro…
Il nuovo capi­ta­li­smo ha sman­tel­lato le isti­tu­zioni e ha tra­sfor­mato le car­riere in meri lavori. Le car­riere di un tempo richie­de­vano un impe­gno con­ti­nua­tivo sia nella costru­zione di un cor­redo di com­pe­tenze indi­vi­duali, affi­da­bili, salde, sia nella tes­si­tura di un insieme di rela­zioni sia ver­ti­cali sia orizzontali.
Negli anni Ses­santa e Set­tanta la nego­zia­zione fra diri­genti e mano­do­pera poteva anche essere ruvida ma alla fine si giun­geva comun­que a un accordo che con­sen­tisse di andare avanti. I qua­dri inter­medi erano a cono­scenza delle deci­sioni dei diri­genti, e la con­sa­pe­vo­lezza della rotta comune era tale da moti­vare tutti. Esi­steva anche una pro­pen­sione al soste­gno reci­proco dei lavo­ra­tori che, in caso di neces­sità, vuoi per un dramma fami­liare, vuoi per il sem­plice sci­vo­lone di un col­lega che magari si era ubria­cato, si aiu­ta­vano e si copri­vano affin­ché il lavoro pro­ce­desse e non ci fos­sero con­se­guenze serie per nes­suno. La potente indi­vi­dua­liz­za­zione del divide et impera odierno, il cre­scente potere dei mana­ger che non sanno ormai più nulla del lavoro che viene svolto e che hanno inter­rotto la comu­ni­ca­zione con i qua­dri che lo ese­guono ma che sono stati espunti da qua­lun­que potere deci­sio­nale con­giunto, la scom­parsa o l’estremo inde­bo­li­mento di strut­ture, cor­po­ra­zioni e asso­cia­zioni a difesa dei lavo­ra­tori, met­tono oggi l’uno con­tro l’altro, così come indu­cono spesso pro­prio le cate­go­rie di lavo­ra­tori più svan­tag­giate a guar­dare con sospetto o con odio agli immi­grati che potreb­bero rubare il posto a chi ce l’ha e non sa se e fino a quando potrà conservarlo.
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Il suo metodo inter­di­sci­pli­nare di inda­gine socio­lo­gica, che attinge dalla let­te­ra­tura, dall’arte e dalla musica, dipende dal Suo pas­sato di violoncellista?
Senz’altro. Ricordo che ero bravo e mi pia­ceva mol­tis­simo suo­nare da solo ma che facevo dav­vero fatica a suo­nare con gli altri. C’era sem­pre qual­che motivo di disac­cordo e tal­volta mi pro­vo­cava una sof­fe­renza vera e pro­pria dover rinun­ciare alla mia visione di come avrebbe dovuto essere ese­guito un brano per­ché gli altri musi­ci­sti erano ani­mati da un’altra pro­spet­tiva. Era una lotta con­ti­nua con me stesso e con gli altri. Ma poi, riu­scendo attra­verso la reci­proca influenza a tro­vare una serie di solu­zioni che con­sen­ti­vano un’esecuzione con­giunta infi­ni­ta­mente più signi­fi­ca­tiva del suo­nare da soli, la sod­di­sfa­zione che se ne traeva ripa­gava delle ten­sioni e delle fru­stra­zioni che la nego­zia­zione aveva com­por­tato. Si tratta di un pro­cesso di appren­di­mento fati­coso ma essen­ziale: ci si educa o si viene edu­cati alla capa­cità di coo­pe­rare che è un’arte: un’arte che oggi non viene più inse­gnata, che per certo in un’epoca che tende a can­cel­lare la figura del «mae­stro» non ci verrà inse­gnata dalla rete. Le per­sone sono fatte per vivere insieme ma tale com­pe­tenza va col­ti­vata. La com­pe­tenza dia­lo­gica dipende dalle capa­cità di ascolto, dalle esi­genze che tra­spa­iono sotto le parole.
Il mar­xi­smo che si mani­fe­sta in fili­grana in tutta la sua opera si ispira più al socia­li­smo sociale del XIX secolo che ai «mas­simi sistemi», segna­lando una sua sfi­du­cia nella «poli­tica»: è così?
In effetti non credo nei par­titi poli­tici, auspi­che­rei piut­to­sto un decen­tra­mento in cui le sin­gole voci potes­sero avere un ter­reno comune in cui mani­fe­starsi. La mia è anzi una posi­zione «anti­po­li­tica», le per­sone che par­lano insieme con una sola voce non mi piac­ciono, sono con­tra­rio all’uniformità e all’omogeneizzazione. Sono cre­sciuto in un quar­tiere dif­fi­cile dove le oppor­tu­nità per un ragazzo nero e povero erano ine­si­stenti al di fuori dell’affiliazione a una gang. Que­sti gio­vani sape­vano che un per­corso sco­la­stico sarebbe stato tempo perso per loro per­ché ne erano esclusi a priori. Ecco per­ché pre­fe­ri­sco le pra­ti­che di socia­liz­za­zione ai mas­simi sistemi: por­tare via un ragazzo dalle gang ha biso­gno di diplo­ma­zia sociale e di sen­si­bi­lità. Men­tre la spon­ta­neità induce a urlare e a cer­care con ogni mezzo di accre­di­tare la pro­pria visione, la diplo­ma­zia sociale è una com­pe­tenza che può sul serio modi­fi­care le cose. Per riu­scirvi, però, non bastano certo i social net­work, c’è biso­gno di qual­cosa che vada oltre i mes­saggi deno­ta­tivi espli­citi, il fatto di scri­vere sì o no, e che coin­volga la comu­ni­ca­zione non ver­bale. I blog sono depri­menti, defi­ni­scono tutto tra­mite le parole, manca un soprac­ci­glio che si sol­leva, o la mano che si posa su un brac­cio. Le nuove tec­no­lo­gie, per quanto utili, pos­sono essere una tra­ge­dia per­ché costi­tui­scono espe­rienze sma­te­ria­liz­zate men­tre noi esseri umani abbiamo la neces­sità di espe­rienze incarnate.
Cosa pensa delle bar­riere che si sol­le­vano un po’ dovun­que nei con­fronti dei migranti?
Provo tri­stezza e rab­bia per­ché sem­bra che tutti quei paesi che un tempo vede­vano la loro gente emi­grare e che adesso dovreb­bero acco­gliere per­sone a loro volta costrette a emi­grare si com­por­tano come gli Stati che negli anni Trenta e Qua­ranta si rifiu­ta­vano di aprire le porte agli ebrei per­se­gui­tati dal nazi­smo e dal fasci­smo. Hanno dimen­ti­cato che siamo stati tutti migranti, e chiu­dono le porte come cara­paci. In realtà la società odierna mi sem­bra, a dif­fe­renza di quanto pensa Zyg­munt Bau­man, solida e impe­ne­tra­bile. Nei secoli XVIII e XIX la popo­la­zione dell’Europa era molto povera e molto fluida, adesso invece si sta rifa­sci­stiz­zando. Come fa l’Irlanda, che ha avuto l’emigrazione del 60 per cento della sua popo­la­zione, a sbar­rare le porte ai migranti? Sotto que­sto aspetto l’Italia è stata ed è più generosa.
C’è una eco «laca­niana» nel secondo dei due saggi che com­pon­gono il suo ultimo volu­metto «Lo stra­niero». Lo apre con l’opera di Manet «Il bar delle Folies-Bergère» che, attra­verso lo stra­nia­mento e la dislo­ca­zione susci­tati dal dipinto, sem­brano sug­ge­rire l’impressione: «Guardo in uno spec­chio e vedo qual­cuno che non sono io». Sem­bra quasi un’indicazione di per­corso non solo per lo stra­niero che deve rie­la­bo­rare la pro­pria iden­tità, ma anche per cia­scuno di noi che siamo tanto più incon­si­stenti e peri­co­lanti quanto più ci sen­tiamo pian­tati con i piedi per terra in un’autoimmagine inscalfibile.
Ho cono­sciuto per­so­nal­mente Lacan e, se lui non mi è pia­ciuto come per­sona, apprezzo però il suo genio. In Insieme avevo par­lato dei tre modi di effet­tuare una ripa­ra­zione. Il primo è quello di ripri­sti­nare l’oggetto così com’era. L’equivalente di que­sto ten­ta­tivo per un migrante è la nostal­gia e il desi­de­rio che tutto torni così com’era. Fal­li­men­tare. Il secondo modo è quello di ripa­rare l’oggetto ren­den­dolo migliore di quanto fosse nel suo stato ori­gi­na­rio. Insuf­fi­ciente, giac­ché la rapi­dità di cam­bia­mento del mondo con­tem­po­ra­neo rende ina­de­guata qual­che sem­plice miglio­ria a qual­cosa che è stato tra­volto da un’onda impe­tuosa. Il terzo modo, quindi, quello di tra­sfor­mare l’oggetto in qual­cosa di nuovo, è l’unico che possa atta­gliarsi al migrante che sa di esserlo e all’autoctono che è tale solo prov­vi­so­ria­mente, fin­ché non soprag­giunga la pos­sente onda d’urto del cam­bia­mento che preme.
Ne L’uomo arti­giano avevo spie­gato che la capa­cità crea­tiva del pro­ta­go­ni­sta del libro non è nostal­gica, non è rivolta a un pas­sato da far risor­gere, ma è la capa­cità di far nascere qual­cosa di nuovo. Voi ita­liani, che secondo me con un certo maso­chi­smo vi auto­sva­lu­tate, siete mae­stri nel gene­rare nuove armo­nie, nuovi sce­nari di bel­lezza inau­dita, ma la lezione riguarda tutti noi: come aveva scritto Kant nel 1784 in Idea di una sto­ria uni­ver­sale dal punto di vista cosmo­po­li­tico, gli esseri umani sono tanto più favo­riti nello svi­luppo quanto più rie­scono a tesau­riz­zare gli sti­moli che arri­vano da chi è diverso: dun­que, dob­biamo inven­tare solu­zioni crea­tive di convivenza.

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