Richard Sennett è stato recentemente ospite del Premio Hemingway, giunto alla trentunesima edizione, per la sezione “Avventura del Pensiero” a Lignano Sabbiadoro, una sorta di anticipazione di «Pordenonelegge».
È un uomo molto gentile e riservato, questo sociologo settantaduenne caratterizzato da una schiera di ammiratori che in tutto il mondo attendono ogni volta con ansia che esca un suo nuovo libro. Forse perché centellina i suoi volumi, visto che il terzo libro del suo progetto «Homo faber», una trilogia iniziata nel 2008 con L’uomo artigiano e proseguita nel 2012 con Insieme. Rituali, piaceri, politiche della collaborazione (entrambi pubblicati da Feltrinelli), si concluderà forse nel 2016 con il libro sulle città e ha avuto una sola interpunzione, un piccolo libro titolatoLo straniero pubblicato sempre da Feltrinelli. O forse perché nei suoi libri, mai semplici, si ritrova l’arte dell’artigiano che raccomanda e di cui è maestro: forma e rigore ravvivati da qualche contrappunto di ironia che non sconfina però nella brutalità o nella risata beffarda.
Si percepisce dal suo stile un amore profondo per l’«umano». E traspare anche dalla sua riluttanza a rilasciare interviste frettolose: parlare dei destini del mondo in due minuti è irrispettoso non solo per chi è chiamato a farlo dall’alto del suo magistero ma anche per i lettori.
Nei suoi libri si è molto dilungato sulle caratteristiche del «nuovo capitalismo», mettendone in evidenza il loro lato oscuro…
Il nuovo capitalismo ha smantellato le istituzioni e ha trasformato le carriere in meri lavori. Le carriere di un tempo richiedevano un impegno continuativo sia nella costruzione di un corredo di competenze individuali, affidabili, salde, sia nella tessitura di un insieme di relazioni sia verticali sia orizzontali.
Negli anni Sessanta e Settanta la negoziazione fra dirigenti e manodopera poteva anche essere ruvida ma alla fine si giungeva comunque a un accordo che consentisse di andare avanti. I quadri intermedi erano a conoscenza delle decisioni dei dirigenti, e la consapevolezza della rotta comune era tale da motivare tutti. Esisteva anche una propensione al sostegno reciproco dei lavoratori che, in caso di necessità, vuoi per un dramma familiare, vuoi per il semplice scivolone di un collega che magari si era ubriacato, si aiutavano e si coprivano affinché il lavoro procedesse e non ci fossero conseguenze serie per nessuno. La potente individualizzazione del divide et impera odierno, il crescente potere dei manager che non sanno ormai più nulla del lavoro che viene svolto e che hanno interrotto la comunicazione con i quadri che lo eseguono ma che sono stati espunti da qualunque potere decisionale congiunto, la scomparsa o l’estremo indebolimento di strutture, corporazioni e associazioni a difesa dei lavoratori, mettono oggi l’uno contro l’altro, così come inducono spesso proprio le categorie di lavoratori più svantaggiate a guardare con sospetto o con odio agli immigrati che potrebbero rubare il posto a chi ce l’ha e non sa se e fino a quando potrà conservarlo.
Il suo metodo interdisciplinare di indagine sociologica, che attinge dalla letteratura, dall’arte e dalla musica, dipende dal Suo passato di violoncellista?
Senz’altro. Ricordo che ero bravo e mi piaceva moltissimo suonare da solo ma che facevo davvero fatica a suonare con gli altri. C’era sempre qualche motivo di disaccordo e talvolta mi provocava una sofferenza vera e propria dover rinunciare alla mia visione di come avrebbe dovuto essere eseguito un brano perché gli altri musicisti erano animati da un’altra prospettiva. Era una lotta continua con me stesso e con gli altri. Ma poi, riuscendo attraverso la reciproca influenza a trovare una serie di soluzioni che consentivano un’esecuzione congiunta infinitamente più significativa del suonare da soli, la soddisfazione che se ne traeva ripagava delle tensioni e delle frustrazioni che la negoziazione aveva comportato. Si tratta di un processo di apprendimento faticoso ma essenziale: ci si educa o si viene educati alla capacità di cooperare che è un’arte: un’arte che oggi non viene più insegnata, che per certo in un’epoca che tende a cancellare la figura del «maestro» non ci verrà insegnata dalla rete. Le persone sono fatte per vivere insieme ma tale competenza va coltivata. La competenza dialogica dipende dalle capacità di ascolto, dalle esigenze che traspaiono sotto le parole.
Il marxismo che si manifesta in filigrana in tutta la sua opera si ispira più al socialismo sociale del XIX secolo che ai «massimi sistemi», segnalando una sua sfiducia nella «politica»: è così?
In effetti non credo nei partiti politici, auspicherei piuttosto un decentramento in cui le singole voci potessero avere un terreno comune in cui manifestarsi. La mia è anzi una posizione «antipolitica», le persone che parlano insieme con una sola voce non mi piacciono, sono contrario all’uniformità e all’omogeneizzazione. Sono cresciuto in un quartiere difficile dove le opportunità per un ragazzo nero e povero erano inesistenti al di fuori dell’affiliazione a una gang. Questi giovani sapevano che un percorso scolastico sarebbe stato tempo perso per loro perché ne erano esclusi a priori. Ecco perché preferisco le pratiche di socializzazione ai massimi sistemi: portare via un ragazzo dalle gang ha bisogno di diplomazia sociale e di sensibilità. Mentre la spontaneità induce a urlare e a cercare con ogni mezzo di accreditare la propria visione, la diplomazia sociale è una competenza che può sul serio modificare le cose. Per riuscirvi, però, non bastano certo i social network, c’è bisogno di qualcosa che vada oltre i messaggi denotativi espliciti, il fatto di scrivere sì o no, e che coinvolga la comunicazione non verbale. I blog sono deprimenti, definiscono tutto tramite le parole, manca un sopracciglio che si solleva, o la mano che si posa su un braccio. Le nuove tecnologie, per quanto utili, possono essere una tragedia perché costituiscono esperienze smaterializzate mentre noi esseri umani abbiamo la necessità di esperienze incarnate.
Cosa pensa delle barriere che si sollevano un po’ dovunque nei confronti dei migranti?
Provo tristezza e rabbia perché sembra che tutti quei paesi che un tempo vedevano la loro gente emigrare e che adesso dovrebbero accogliere persone a loro volta costrette a emigrare si comportano come gli Stati che negli anni Trenta e Quaranta si rifiutavano di aprire le porte agli ebrei perseguitati dal nazismo e dal fascismo. Hanno dimenticato che siamo stati tutti migranti, e chiudono le porte come carapaci. In realtà la società odierna mi sembra, a differenza di quanto pensa Zygmunt Bauman, solida e impenetrabile. Nei secoli XVIII e XIX la popolazione dell’Europa era molto povera e molto fluida, adesso invece si sta rifascistizzando. Come fa l’Irlanda, che ha avuto l’emigrazione del 60 per cento della sua popolazione, a sbarrare le porte ai migranti? Sotto questo aspetto l’Italia è stata ed è più generosa.
C’è una eco «lacaniana» nel secondo dei due saggi che compongono il suo ultimo volumetto «Lo straniero». Lo apre con l’opera di Manet «Il bar delle Folies-Bergère» che, attraverso lo straniamento e la dislocazione suscitati dal dipinto, sembrano suggerire l’impressione: «Guardo in uno specchio e vedo qualcuno che non sono io». Sembra quasi un’indicazione di percorso non solo per lo straniero che deve rielaborare la propria identità, ma anche per ciascuno di noi che siamo tanto più inconsistenti e pericolanti quanto più ci sentiamo piantati con i piedi per terra in un’autoimmagine inscalfibile.
Ho conosciuto personalmente Lacan e, se lui non mi è piaciuto come persona, apprezzo però il suo genio. In Insieme avevo parlato dei tre modi di effettuare una riparazione. Il primo è quello di ripristinare l’oggetto così com’era. L’equivalente di questo tentativo per un migrante è la nostalgia e il desiderio che tutto torni così com’era. Fallimentare. Il secondo modo è quello di riparare l’oggetto rendendolo migliore di quanto fosse nel suo stato originario. Insufficiente, giacché la rapidità di cambiamento del mondo contemporaneo rende inadeguata qualche semplice miglioria a qualcosa che è stato travolto da un’onda impetuosa. Il terzo modo, quindi, quello di trasformare l’oggetto in qualcosa di nuovo, è l’unico che possa attagliarsi al migrante che sa di esserlo e all’autoctono che è tale solo provvisoriamente, finché non sopraggiunga la possente onda d’urto del cambiamento che preme.
Ne L’uomo artigiano avevo spiegato che la capacità creativa del protagonista del libro non è nostalgica, non è rivolta a un passato da far risorgere, ma è la capacità di far nascere qualcosa di nuovo. Voi italiani, che secondo me con un certo masochismo vi autosvalutate, siete maestri nel generare nuove armonie, nuovi scenari di bellezza inaudita, ma la lezione riguarda tutti noi: come aveva scritto Kant nel 1784 in Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, gli esseri umani sono tanto più favoriti nello sviluppo quanto più riescono a tesaurizzare gli stimoli che arrivano da chi è diverso: dunque, dobbiamo inventare soluzioni creative di convivenza.
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