er anni è stato considerato una questione tutta giapponese, una di quelle cose strane che fanno laggiù, come l’inchino, il biglietto da visita porto con due mani e le cene seduti per terra.
E invece no. Perché gliHikikomori, cioè gli adolescenti che rifiutano il mondo e si chiudono in camera per non uscirne più per mesi, anni o addirittura per tutta la vita, adesso ci sono anche in Europa e in Italia.
“I primi casi italiani, sporadici e isolati, sono stati diagnosticati nel 2007, e da allora il fenomeno ha continuato a crescere e, seppure con numeri diversi da quelli giapponesi, a diffondersi”.
A spiegarlo è Antonio Piotti, psicoterapeuta in forze al centro milanese Il Minotauro, che da sempre studia il disagio adolescenziale e autore, insieme a Roberta Spiniello e Davide Comazzi, del libro ‘Il corpo in una stanza’ (Franco Angeli) la prima indagine organica sugli hikikomori italiani.
“Ad oggi non sappiamo con precisione quanti siano i giovani italiani che si sono ‘ritirati’- spiega Piotti-. Le stime parlano di 20/30 mila casi, ma il fenomeno potrebbe essere più ampio. In Francia se ne contano quasi 80 mila, mentre in Giappone, dove il fenomeno è quasi endemico, si parla di cifre che oscillano tra i 500 mila e il milione di casi”.
Difficile riconoscere i sintomi di un Hikikomori, che possono essere confusi con quelli di una più comune depressione, anche se si tratta di due forme di malessere molto diverse.
“Chi è depresso - spiega Piotti - tipicamente ha crisi di pianto, incapacità di relazione, continue lamentazioni su di sé e, nella sua sofferenza, c’è una forte componente di senso di colpa. Negli Hikikomori, invece, il sentimento prevalente è la vergogna. Si vive come un fallimento la distanza tra il mondo che si è immaginato e previsto per sé e quella che invece è la realtà: tanto più grande è la distanza tra la realtà che si era idealizzata e quella vera, tanto più grande sarà la vergogna che si prova”.
Così, in un’età che tipicamente si colloca tra la terza media e la prima superiore e indipendentemente dalla posizione geografica e sociale, posti di fronte alle comuni sfide della crescita, alcuni giovanissimi fanno crash e prendono a evitare sempre di più il mondo esterno, fino a scegliere l’autoreclusione in un universo minimo, fatto solo di una stanza, in cui i contatti con il prossimo sono relegati solo all’universo virtuale dei social network o dei videogiochi e in cui non di rado il ritmo sonno veglia è completamente invertito.
“Tra i sintomi presentati dagli Hikikomori c’è una forte avversione per tutti i tipi di attività sociali, dall’uscire con i coetanei alla pratica di sport di gruppo, e, soprattutto, un’accentuata fobia scolare, non necessariamente motivata da brutti voti. Il problema a scuola non riguarda né le materie, né lo studio, né gli insegnanti, ma la socialità complessiva, l’incontro con membri dell’altro sesso e, quindi, il rischio del rifiuto, e la competizione, non sempre vincente e felice, con quelli del proprio”.
A saziare le esigenze di chi si taglia fuori dal mondo esterno, pensa la Rete che dà risposte e aiuta a costruire legami senza troppi pericoli e senza metter in gioco il corpo. E proprio Internet è al centro di un’ampia discussione nella quale ci si chiede se il rapporto parossistico tra Hikikomori e web sia la causa o l’effetto della malattia.“In merito ci sono due teorie: secondo la prima gli Hikikomori nascono per colpa della rete, che con le sue mille attrattive ti tira dentro e ti allontana dal mondo. La seconda, invece, a cui credo io, sostiene che i ragazzi stanno male comunque, perché non reggono il peso del confronto e della continua aspettativa che arriva dalla cultura contemporanea; una volta che ci si è reclusi in casa, poi, la Rete è oggettivamente un posto bellissimo dove andare, potenzialmente infinito e pieno di stimoli, in cui crearsi una vita fuori dalla vita”.
In attesa di decidere se è nato prima l’uovo dell’attaccamento a internet o la gallina dell’isolamento dal mondo reale, l’unico dato di fatto è che dalla rete, spesso, arriva anche l’unico modo per curare gli Hikikomori.
“Al terapeuta tocca trovare il modo per entrare in contatto ragazzi che, appunto, non vogliono nessun contatto e, spesso l’unico modo per farlo passa proprio internet, con Skype o con le chat”.
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