Nonostante le apparenze raccolte rispetto a “La grande bellezza”, le ambizioni di “Youth” rimangono altissime: ci si confronta con il tempo, la morte, il senso e il ruolo dell’artista. Il protagonista del film, Ballister, è un musicista in ritiro, accompagnato dall’amico di sempre, Mick, un regista, anche lui alla fine, ma a differenza del musicista, combattivamente alla ricerca di un’ultima chance. La regina d’Inghilterra vorrebbe che Ballister dirigesse per lei le sue celebri “Canzoni semplici”, ma lui rifiuta. Intanto, sua figlia viene mollata dal marito (che è il figlio di Mick), e una serie di apparizioni fugaci popola il luogo: un gruppo musicale vintage, un attore in cerca di concentrazione, miss Universo, una specie di Maradona (forse la figura più folgorante).
La prima parte del film si divide tra le scene a due (i duetti Keitel/ Caine, coppia quasi alla Neil Simon) e dei tableaux vivants suggestivi, tra l’estasi e il grottesco. Troppo facile citare la stazione termale di “8 1/2”, come “La dolce vita” per il film precedente. O magari, le fotografie di Martin Parr o un film sottovalutato come “Il volto dell’altra” di Corsicato. In ogni caso Sorrentino impone una cifra immediatamente riconoscibile, quasi un marchio. E qui osa una struttura più musicale che narrativa, giocando con il kitsch, consapevole dei rischi.
Rispetto agli altri suoi film, sono più evidenti certi scivoloni (la parata delle attrici passate di Mick), la ricerca della frase a effetto e, man mano che ci si avvicina alla fine, un tono grave che punta diretto al sublime.
Comunque il talento visivo del regista è fuori discussione; e anche, cosa forse ancor più decisiva, la sua sincerità. Molte immagini del film, e la sua atmosfera, accompagnano lo spettatore e lo toccano oscuramente. Grazie anche a un gran gioco d’attori, guidato da un gigantesco Michael Caine (ma va ricordata almeno l’apparizione, feroce e irresistibile, di Jane Fonda).
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M. CONSOLI,
La grande vecchiezza, L'Espresso, 20 maggio 2015
Come scrivere l’ultima scena dell’ultimo giorno della vita di un uomo, nel proprio ultimo film? Questo è il cruccio di un rispettato e anziano regista (Harvey Keitel) ritiratosi in un resort sulle Alpi svizzere, insieme al consuocero e amico (Michael Caine), famoso direttore d’orchestra e compositore che invece sembra avere perso ogni interesse per la vita attiva, e rifiuta l’invito della Regina d’Inghilterra di tornare a dirigere per un’ultima volta. Sono queste le due principali forze che collidono in La giovinezza di Paolo Sorrentino, accolto alla prima per la stampa a Cannes da molti applausi e qualche fischio.
I motivi di questa reazione sono entrambi comprensibili, perché da qualche tempo Sorrentino è un regista che divide il pubblico. Da un lato c’è chi ammira il suo indubitabile talento per la messa in scena di immagini di rara bellezza e inventiva cinematografica: esse rivelano un immaginario vivido, non a caso accostato a quello di altri maestri del passato, e contribuiscono a creare uno stile personale progressivamente più riconoscibile nella sua cinematografia a partire da Il divo. Dall’altro c’è chi ritiene come la continua ricerca del grottesco e del surreale a tutti i costi finisca per fagocitare la narrazione, che si rivela sempre meno pregnante e per alcuni addirittura presuntuosa.
Nell’hotel sulle Alpi dove i due vecchi maestri passano le giornate tra ricordi di vecchi amori, discussioni sui disturbi alla prostata e riflessioni sul senso dell’esistenza ormai alle spalle, fanno capolino altri ospiti: un giovane attore alla ricerca della concentrazione per il suo prossimo impegnativo ruolo, due coniugi anziani che probabilmente non si parlano da anni, un monaco buddista e persino, chissà perché, Maradona, appesantito da una gigantesca pancia e zoppicante, ma ancora in grado di fare sognare i suoi fan e di far volare una pallina da tennis col suo piede sinistro come una piuma. Un dono divino il suo, come il talento dei protagonisti e la bellezza di Miss Universo, che arriva nell’hotel e risveglia gli ormoni e il rimpianto dei due ottuagenari, subito dopo aver dimostrato che anche le donne incredibilmente avvenenti possono essere intelligenti (sic).
II direttore d’orchestra rifiuta più volte l’invito a tornare sul podio, nonostante gli inviti della figlia (Rachel Weisz) che gli fa da agente, ed anzi trova il modo per ripensare al suo ruolo fallimentare di padre e marito fedigrafo, quando lei torna a trovarlo perché lasciata dal coniuge per una cantante pop più brava di lei a letto (un incubo sottolineato con una piccola cartolina che stigmatizza il trash sempre più invadente nei videoclip delle popstar). Nel frattempo il regista discute coi suoi sceneggiatori alla ricerca del finale perfetto per il suo film, finché la sua musa e protagonista di tante sue pellicole (Jane Fonda) arriva a fargli visita per una rivelazione tanto inattesa quanto travolgente.
Il bilancio delle due esistenze, con i suoi rimpianti, le dolci memorie, la visione della realtà (che da giovani sembra a portata di mano e da vecchi irraggiungibile, come sottolinea Keitel con la metafora del binocolo), il bilancio di successi e fallimenti, le paure e le fragilità, finisce per essere fagocitato da troppe belle immagini che appagano lo sguardo ma distraggono: una massaggiatrice che gioca ai videogame, suonatori di corni tibetani, un attore vestito da Hitler, due vecchi che copulano selvaggiamente nel bosco, e molte altre ancora. Così rischia di perdersi l’unico messaggio forte del film: arriva un momento in cui anche i grandi maestri devono farsi da parte, ritirarsi per sempre e lasciare spazio alle nuove generazioni (altrimenti costrette ad una squallida vita, come la giovanissima escort accompagnata ogni sera sulla soglia dell’hotel dalla madre). Un’affermazione rivoluzionaria soprattutto per l’Italia dove i giovani troppo spesso attendono che i vecchi, incapaci di ritirarsi a vita privata, muoiano stremati durante il loro ultimo spettacolo.
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