fine giugno di quasi cinquant’anni fa, Hanna Arendt scriveva all’amico Karl Jaspers: «Sembra che i figli del Ventunesimo secolo studieranno il Sessantotto alla stessa maniera con cui noi abbiamo studiato le rivoluzioni del 1848». E aggiungeva: «La vicenda mi tocca personalmente. Dany il Rosso, Cohn-Bendit, è figlio di amici intimi ed è un ragazzo eccellente».
Due giorni dopo, la filosofa si rivolge direttamente al ragazzo eccellente: «Sono convinta che i tuoi genitori se fossero ancora vivi, sarebbero orgogliosi di te» e gli offre ogni sorta di aiuto, compreso quello finanziario.
L’amicizia tra Arendt ed Erich Cohn, padre di Daniel, trotzkista, ebreo tedesco, scomparso nel 1959 e la moglie Herta David, risaliva a metà anni Trenta: non solo ebrei, ma antifascisti ed esuli in Francia. E il rapporto tra l’autrice di “Banalità del Male. Eichmann a Gerusalemme” e il ragazzo che appena 23enne sfidò il generale De Gaulle per diventare volto e simbolo del Sessantotto europeo, è fondamentale per capire cosa resta oggi di quell’anno e che fine hanno fatto i suoi protagonisti.
Diciamolo esplicitamente. Tra i tanti meriti di Arendt c’è l’aver tradito la propria appartenenza per restare fedele all’indipendenza di giudizio e quindi alla propria biografia. Il libro appena citato ha significato per lei, ebrea tedesca simpatizzante (con riserve) del sionismo, l’anatema da parte dell’ambiente da cui proveniva. Ecco, possiamo azzardare quanto segue: del Sessantotto siamo tutti debitori sul piano dei costumi (il nemico del Sessantotto Sarkozy, un po’ ebreo un po’ ungherese e divorziato, senza il Sessantotto non sarebbe stato presidente della Repubblica) e dell’immaginario. Una generazione è stata sulle barricate. Poi, come sempre accade alle generazioni ognuno ha scelto la propria strada: notaio, avvocato, giornalista, imprenditore, insegnante, operaio, prete, rabbino, di destra e di sinistra e via elencando. Ma resta il tradimento delle idee preconcette, per essere invece fedeli alla biografia e quindi al proprio punto di vista.
L’essenziale, per alcuni dei leader del Sessantotto, non senza errori, è stato continuare a provare lo stupore di fronte al mondo, porre prima le domande a se stessi, e solo dopo dare una possibile risposta agli altri. E così, per eterogenesi dei fini, l’eredità, se esiste un’eredità del Sessantotto, non è la purezza ideologica, ma l’ambivalenza e cioè la consapevolezza che l’intransigenza serve per arrivare a un dignitoso compromesso, dentro il quadro della storia e non contro la Storia. O forse, possiamo dire che del Sessantotto resta più Hannah Arendt con la sua radicalità filosofica unita al rifiuto dell’utopia che non Marx e Marcuse.
Abbiamo parlato di Dany Cohn-Bendit. E intanto aggiungiamo altri nomi di protagonisti (tutti maschili, perché il Sessantotto delle donne che finisce nel femminismo è un’altra storia): Adam Michnik, Adriano Sofri, Alex Langer.
Nel 1976 Michnik, polacco, anche lui ebreo, figlio di comunisti, pubblica un libro intitolato “La Chiesa e la sinistra in Polonia”. La tesi: è ora perché la sinistra laica, il gruppetto di persone che contestando il potere comunista usava il linguaggio di origine marxista, riconosca il ruolo emancipatorio della Chiesa. Nello stesso anno Adriano Sofri scioglie Lotta Continua e si ritira alla vita privata, salvo riemergere dopo, a sostegno non delle lotte rivoluzionarie per la conquista del potere, ma in difesa degli oppressi ovunque siano nel mondo; mentre due anni dopo Cohn-Bendit comincia la sua lunga marcia dentro le istituzioni, nei ranghi dei Verdi. Qualche anno dopo diventerà assessore comunale a Francoforte e poi deputato europeo e non chiederà più di abbattere il potere “borghese e capitalista”. Nello stesso periodo Langer rifiuta la schedatura etnica nell’Alto Adige e inizia il suo coinvolgimento nel movimento ambientalista. Il rifiuto di dichiararsi appartenente a uno dei gruppi linguistici (italiano o tedesco) lo porterà a teorizzare una specie di tradimento «senza diventare transfughi».
Nel 1968 dunque Michnik è al centro della contestazione studentesca a Varsavia. In Polonia non si chiede di rovesciare i “rapporti di produzione capitalisti” né, come a Parigi (o a Pisa) la libertà per le ragazze e i ragazzi di stare insieme nelle Case dello Studente. La richiesta è invece: più libertà di parola, più democrazia “borghese”. E tuttavia durante uno dei processi dove Cohn-Bendit è imputato, il giovane anarchico (così si definiva) trova il modo per dichiarare la sua piena identificazione con i coetanei polacchi. Riflesso generazionale? Certamente. Ma di che tipo? Cohn-Bendit, e Michnik sono ebrei sui generis, non credenti, non praticanti, fanno parte della prima generazione post-Shoah. Hanno introiettato la memoria di quello che è successo, ma non ne hanno paura. E anzi, cercano di essere più bravi e più eroici dei genitori sopravvissuti. E forse, prima ancora di aver letto sul serio Hannah Arendt, sentono (non del tutto coscientemente) che per cambiare il mondo occorre avere il coraggio di essere soggetti della storia; di fare la scelta giusta. E a guardar bene, tra Francia, Polonia, America, tantissimi sessantottini erano ebrei laici; ragazzi alle prese con l’indicibile. In Italia, la storia è un po’ diversa: ma in ogni caso, è la Resistenza la vicenda con cui ci si misura. In Germania poi, la domanda che si pongono i sessantottini è devastante: cosa hanno fatto i nostri padri, mentre il padre di Cohn-Bendit rischiava di finire ad Auschwitz?
Terminata, come detto, tra la metà e fine anni Settanta, la certezza che le giuste idee e le ottime dottrine salveranno il mondo, non restava che una lunga marcia per rivedere le idee e per non arrendersi al mondo. Qualcuno può pensare agli incendiari diventati, maturando, pompieri. Non è così. Michnik ha scoperto di avere più in comune con alcuni cattolici che non con coloro che si richiamavano alle tradizioni della sinistra “di classe”. Da quella scoperta è nato il movimento Solidarnosc e tutto ciò che ne è seguito. Certo, oggi, in Polonia, lui direttore di “Gazeta Wyborcza”, dalle autorità più che uno dei padri della democrazia, è considerato il nemico della nazione. La storia non è lineare. Sofri, nel 1979 scrisse e fu duramente criticato, che in Polonia nessuno parlava di Rosa Luxemburg (eroina dei giovani rivoluzionari) e molti invece del maresciallo Pilsudski, dittatore d’anteguerra, ma nemico degli xenofobi. Negli anni Ottanta, Sofri portava soldi e aiuti all’opposizione clandestina a Varsavia. Nei Novanta andò ad abitare a Sarajevo assediata dai nazionalisti serbi. Ora continua l’attività a sostegno dei più deboli, frequentando il Kurdistan. Nella ex Jugoslavia andava spesso anche Langer, a ricostruire ponti umani là dove i nazionalisti avevano distrutto quelli in muratura e cemento armato. E dei Balcani si interessava moltissimo Cohn-Bendit. E a proposito: Sofri attirò su di sé tantissime critiche perché era favorevole all’intervento armato internazionale contro i macellai serbi. Idem Cohn-Bendit. I Balcani sono stati probabilmente il vero banco di prova per quelli che sono rimasti fedeli alle biografie e non al sistema delle appartenenze. Per Michnik era facile (in Polonia nessuno è contro la Nato), per i suoi amici occidentali non era scontato schierarsi dalla parte dell’Alleanza atlantica, tanto aborrita in gioventù. Ma in fondo, i ragazzi del Sessantotto avevano sempre proclamato l’internazionalismo.
E per quanto riguarda il tradimento, le biografie, i conti con la storia per agire da uomini liberi nel presente (Arendt docet): Cohn-Bendit ha più volte rimproverato ai tedeschi di non aver capito che il vanto della loro storia sono persone come Willy Brandt e i disertori della Wehrmacht. Questi ultimi, ha detto nel lontano 1986, meriterebbero un monumento. Il Sessantotto, ripetiamo, era anche una resa dei conti con la generazione della Catastrofe, e in quanto tale una questione molto biografica.
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