«Roussari ya Toussari». Cioè «velo in testa o botte in testa». Non sappiamo il nome di quella coraggiosa ragazza dai capelli neri che in piedi su un cassone sventolava come una bandiera il suo «roussari» bianco nella foto-simbolo delle proteste in Iran. Possiamo immaginare, però, cosa le stiano urlando contro quelli che l’hanno fermata e fatta sparire. È lo slogan che i miliziani islamici di Hezbollah, il «Partito di Dio», barrivano dando la caccia alle donne che, dopo la rivoluzione khomeinista del ‘79, ancora osavano trasgredire alla «raccomandazione» di coprirsi il capo.
Contrariamente alle memorie collettive di allora, infatti, il velo islamico non fu imposto con immediata brutalità alle donne iraniane. Abolito nel ’36 da Reza Shah Pahlavi in nome d’una laicizzazione forzata della società («col risultato paradossale che molte non erano più uscite di casa», spiega Alberto Zanconato, per venti anni corrispondente dell’Ansa da Teheran e autore de l’Iran oltre l’Iran), era per molte ormai da tempo un relitto del passato.Lo dicono le foto in bianco/nero, negli anni Venti, delle femministe della Association of Patriotic Women, tutte a capo scoperto a partire da una delle leader, Fakhr-e Āfāgh Pārsā. Lo dicono le immagini di Farrokhroo Pārsā, la figlia, che nel ’68, con otto anni di anticipo su Tina Anselmi in Italia, diventò la prima donna ministro (all’Istruzione!) e di cui esiste una sola foto col velo: quella scattata dagli aguzzini khomeinisti al processo che l’avrebbe condannata a morte come «corruttrice sulla Terra». Lo dicono le copertine delle riviste non diverse negli anni Settanta da quelle di Oggi, Gente o La domenica del Corriere: camicie strette in vita, scollature, minigonne… Niente di eccessivo o peccaminoso, ovvio. Ma istantanee di belle ragazze libere. Libere accanto a ragazzi dai capelli lunghi, stivaletti col tacco alto, pantaloni a zampa d’elefante.
Per non dire delle foto scattate per la strada, nei ritrovi pubblici, nei giardini… Come quella celebre d’un gruppo di studentesse, tutte senza velo, allegre, vestite all’occidentale, gonna corta, sedute sulle panchine dell’Università di Teheran. O le immagini niente affatto «trasgressive» di gruppi di amici in spiaggia, con tutte le ragazze in costume da bagno, bikini compresi. O ancora quelle di migliaia di donne che a capo scoperto levavano in alto il pugno nei cortei contro lo Scià Reza Pahlavi e a favore della rivoluzione khomeinista. E che intonavano una versione persiana di El pueblo unido jamas serà vencido degli Intilli Imani dal titolo «Bar pa khiz» che, scrive Zanconato, «nei primi mesi di fermento politico seguiti alla caduta dello Shah sarebbe diventato uno degli inni rivoluzionari di maggior successo in Iran».
Ci vollero anni perché il velo diventasse un obbligo. Anni. Quando la stessa Oriana Fallaci riuscì a fare la formidabile intervista a Khomeini nel settembre 1979, il velo che indossava e che si tolse nel famoso gesto di sfida, non era ancora imposto per legge. Era una semplice «cortesia» richiesta dal protocollo. Ma «per non creare allarme nella società e tra gli ex alleati laici», racconta una giornalista persiana «lei stessa convinta religiosa», fu introdotta «passo per passo»: «Quando una donna voleva andare in un ristorante, trovava qualcuno che le presentava dei foulard, magari colorati e alla moda, e le chiedeva gentilmente se le dispiaceva indossarne uno per entrare. Così, a poco a poco, senza quasi che ce ne accorgessimo, il velo è diventato legge». Nel 1983. Quando il potere sciita si era consolidato. E le donne avevano ormai capito come l’Hijab fosse il giogo al quale gli ayatollah avevano deciso di incatenarle.
Per questo le decine di foto di ragazze iraniane felici senza il «roussari» sulla pagina facebook di «My Stealthy Freedom» (la mia libertà furtiva) curata da Masih Alinejad, una giornalista rifugiata a New York, sono insopportabili agli occhi dei fanatici guardiani della repubblica teocratica. Perché nessuno, neanche nel 2009, aveva mai osato tanto. E ogni velo che cade è un drappo sventolato sul muso d’un toro schiumante.
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