È arrivato il decalogo che sancisce l’ingresso degli smartphone nelle aule. Partendo dalla premessa che la scuola non può rifiutare i cambiamenti, il documento è ricco di parole-chiave magniloquenti quanto astratte: «cittadinanza digitale» , «Politica di Uso Accettabile (PUA)», «sviluppo di una capacità critica e creativa», «approccio consapevole», «uso competente e responsabile», «crescita di cittadini autonomi e responsabili», «partecipazione responsabile» in un «mondo sempre più connesso» eccetera.
Nulla che faccia i conti con la realtà. La realizzazione della futura irrinunciabile «cittadinanza digitale» viene lasciata al buon cuore degli insegnanti «nei modi e nei tempi che ritengono opportuni», senza alcuna sperimentazione o formazione preliminare. Facciano loro, se vogliono, come se non avessero altre beghe quotidiane da sbrigare.
In tanto scialo di populismo modernista, viene da sorridere pensando alla immane dispersione scolastica e alle strutture scalcinate in cui dovrebbe realizzarsi la PUA. Ma qui si va al risparmio, perché il criterio, ovviamente in inglese, è: «Bring your own device» (Byod). Ogni allievo porti il suo apparecchio, bello o brutto poco importa (al Miur, non ai ragazzi). Infine, immaginate che un prof di storia annunci: «Ora accendete i dispositivi...». Chi li conosce, sa che a quel punto appariranno immediate notifiche di whatsapp e instagram e social, con la tentazione irresistibile di rispondere e magari fotografare e filmare e inviare il tutto istantaneamente. Perché l’agilità di quegli strumenti, smanettati a casa a tempo quasi pieno e spesso senza controllo, è pensata per un uso fulmineo: non certo per la didattica (cui sarebbero più adeguati i tablet o i computer o le LIM che non possiamo permetterci). Non per la concentrazione e l’approfondimento cui una scuola «consapevole e responsabile» (e, perché no, moderna) dovrebbe mirare.
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