Immagine dal sito de L'ESPRESSO
Non a caso l'immaginifico programma partorito da Enrico Ghezzi (e Marco Giusti) al suo debutto viveva sostanzialmente di pause. Di vuoto d'audio appunto. Conduttori, giornalisti, collegamenti, annunciatrici, show man che restavano in attesa di una parola che non veniva, di un concetto che scappava, di uno stacco della telecamera che, implacabile, non arrivava. Poi a poco a poco il cinismo e la grandezza dell'infinitamente piccolo ha preso prepotentemente quello spazio indistinto dell'errore perché l'errore stesso era la semplicità dell'essere stato pensato. E mandato in onda.
In questa grande festa che riguarda tutti coloro che almeno per una volta abbiano messo un dito sul telecomando ognuno ha contribuito col suo piccolo spazio di vuoto. Da chi si vantava di aver riempito il programma con la sua immagine, a chi lamentava di non essere stato ripreso, a chi ancora oggi si fa raccontare il mondo che gira dai quei geniacci di Blob. I quali, dopo 9268 puntate di urletti, errori, insulti, papere, fanghi, tette, culi, mortadelle, Ciro, plastici di Cogne e mostruosità diversamente accettabili si ostinano a mostrarcelo. Lasciando aperto ogni volta uno spiraglio di speranza, una sorta di lavaggio di coscienza, di scarico collettivo di responsabilità. Che fa dire a cuor leggero che il fatto di guardare Blob con quel pizzico d'orgoglio significa non far parte di quel magma che rotola indistinto. Siamo tutti diversi, siamo più belli, siamo migliori. Quando invece è esattamente il contrario. Blob è solo una grande, sontuosa, intelligente, lussuosa scatola vuota. E chi la riempie siamo semplicemente noi. Di tutto, di più.
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