Piante e animali si sono separati fra 350 e 700 milioni di anni fa in un periodo decisivo per la storia dell’evoluzione sul nostro pianeta.
Le prime, grazie alla loro prodigiosa abilità fotosintetica, non avranno bisogno di spostarsi alla ricerca di cibo essendo energeticamente autonome. I secondi, al contrario, obbligati per sopravvivere a predare altri organismi viventi, saranno costretti al movimento, in costante ricerca di quella stessa energia chimica che le piante hanno originariamente fissato dalla luce del sole.
Le prime, grazie alla loro prodigiosa abilità fotosintetica, non avranno bisogno di spostarsi alla ricerca di cibo essendo energeticamente autonome. I secondi, al contrario, obbligati per sopravvivere a predare altri organismi viventi, saranno costretti al movimento, in costante ricerca di quella stessa energia chimica che le piante hanno originariamente fissato dalla luce del sole.
Essere radicati al suolo, senza possibilità di spostarsi dal luogo in cui si è nati, ha delle conseguenze fondamentali. Le piante non sfuggono di fronte ad un predatore; non vanno alla ricerca di cibo; non si spostano verso ambienti più confortevoli. Le piante non hanno, insomma, la possibilità di adoperare la principale soluzione che gli animali utilizzano per risolvere qualunque difficoltà: il movimento. Ma se non si può scappare, come è possibile resistere ai predatori? I
l trucco sta nel non avere nessun organo fondamentale singolo o doppio, distribuendo al contempo sull’intero corpo tutte quelle funzioni che gli animali concentrano in organi specializzati. Gli animali vedono con gli occhi, sentono con le orecchie, respirano con i polmoni, ragionano con il cervello ecc., le piante vedono, sentono, respirano e ragionano con tutto il corpo. Una differenza fondamentale: concentrazione contro distribuzione, le cui conseguenze per la vita di noi animali non sono immediatamente intuibili.
Ovviamente, a chiunque è evidente l’estrema fragilità del nostro corpo. Basta un banale malfunzionamento di uno qualsiasi dei nostri organi perché la sopravvivenza ne possa rimanere pregiudicata.
È una delle conseguenze della nostra organizzazione; non è l’unica e credo neanche la più importante. L’essere costruiti con un cervello che presiede alle funzioni dei vari organi specializzati, ha influenzato in pratica qualunque tipo di organizzazione o struttura l’uomo abbia mai ideato.
Replichiamo dappertutto questa organizzazione centralizzata e verticistica. Le nostre società sono costruite secondo lo stesso schema. Le nostre aziende, gli uffici, le scuole, gli eserciti, le associazioni, i partiti, tutto è organizzato secondo strutture piramidali. I nostri stessi strumenti, anche quelli più moderni come il computer, sono dei semplici analoghi sintetici di noi stessi; un processore, che mima le funzioni del nostro cervello, che governa delle schede (hardware) che imitano le funzioni dei nostri organi.
L’unico vantaggio di questo tipo di organizzazione è la velocità. Questa qualità sebbene garantisca la necessaria velocità di azione al corpo animale, fallisce tuttavia malamente nella pratica umana. Ogni organizzazione gerarchica, infatti, evolve una sua burocrazia, ossia un gruppo di persone la cui funzione è di trasformare in consuetudine il meccanismo di trasmissione dei comandi attraverso i diversi livelli della gerarchia. La trasmissione da un livello all’altro della catena gerarchica, oltre che essere inevitabilmente soggetta ad errori, richiede del tempo, eliminando così la velocità di azione, ossia l’unico vero vantaggio ascrivibile ad una organizzazione centralizzata.
Rimangono, invece, intatti tutti gli svantaggi: dalla fragilità dell’organizzazione, cui basta rimuovere un qualunque organo fondamentale perché crolli, alla distanza fra il centro che prende le decisioni e il luogo in cui le decisioni stesse hanno effetto.
Qualsiasi organizzazione centralizzata è inerentemente debole: Hernán Cortés e Francisco Pizarro, accompagnati da poche centinaia di uomini, cancellarono due civiltà millenarie, gli aztechi e gli inca, grazie alla banale cattura dei loro capi: Montezuma e Atahualpa. Gli apachi, molto meno progrediti di aztechi e inca, ma dotati di una struttura distribuita e senza alcun potere centralizzato resistettero per secoli all’avanzata spagnola.
Nel 1963 Hannah Arendt pubblica La banalità del male, frutto della sua attività di cronista durante il processo ad Adolf Eichmann. Dal dibattimento in aula la Arendt trarrà la convinzione che Eichmann, così come la maggior parte dei tedeschi, corresponsabili della Shoah, non lo furono a causa di una loro speciale disposizione al male, ma perché parte di un’organizzazione gerarchica in cui i burocrati addetti alla trasmissione degli ordini erano inconsapevoli del significato ultimo delle loro azioni.
Le affermazioni della Arendt sembrarono al tempo irragionevoli.
La tesi che data una organizzazione gerarchica in cui
- ci sia sufficiente distanza fra la propria azione e i risultati della stessa,
- l’autorità sia abbastanza forte e
- i cui rapporti nella gerarchia spersonalizzati, si possa ricreare l’orrore della Shoah, sembrò ai più totalmente inaccettabile.
Quello che la Arendt scriveva scandalizzò il mondo: non solo la Shoah poteva accadere di nuovo, ma chiunque ne sarebbe potuto essere responsabile. Un’ipotesi sconvolgente, confermata lo stesso anno dell’uscita del libro da una stupefacente serie di risultati sperimentali ottenuti a Yale dallo psicologo Stanley Milgram.
La struttura di Slow Food non è esente da queste stesse debolezze. Progettata secondo una rigida costruzione gerarchica: condotte rette da fiduciari, associazioni regionali, comitati esecutivi, segretari regionali, consigli nazionali, presidenti nazionali ecc., l’organizzazione rischia di diventare artritica e governata, a ciascuno dei diversi livelli gerarchici, da cacicchi detentori di potere di veto. Un’associazione che porta la lentezza nel nome non può essere costruita secondo una struttura animale il cui unico vantaggio risiede nella velocità.
Le piante sono un modello molto più moderno.
Nello stesso tempo robuste ed adattabili, costruite secondo un modello cooperativo, distribuito e senza centri di comando, in grado di adeguarsi in tempi rapidissimi a continui cambiamenti e capaci di resistere a ripetuti eventi catastrofici senza perdere di funzionalità. Non è un caso se internet, il simbolo stesso del moderno, sia costruita come una rete radicale.
La rete ha finalmente reso possibile la possibilità di azione diretta delle persone. La passione politica, l’impegno civico e sociale, stanno di fatto trovando strumenti di lavoro distribuiti e maggiore efficacia grazie all’interconnessione delle persone. Ogni organizzazione che si occupi di istanze sociali e comunitarie e che sia ancora oggi strutturata in maniera centralizzata e gerarchica, è irreparabilmente percepita come inefficiente e destinata alla marginalità.
Il mio auspicio è che Slow Food evolva rapidamente in una organizzazione vegetale distribuita. Ne ha i mezzi e le capacità. Qualora decidesse coraggiosamente di cambiare trasformandosi, ne avrebbe vantaggi inimmaginabili in termini di solidità e creatività delle soluzioni.
* docente di neurobiologia vegetale, delegato al congresso
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