Ripensare al modo in cui ci rapportiamo alla bellezza, al significato che le attribuiamo, ai parametri che, spesso in modo inconscio, acquisiamo e ci condizionano in ogni aspetto della nostra vita: “Specchio delle mie brame” – ultimo lavoro della filosofa e scrittrice Maura Gancitano, edito Einaudi – cerca di avvicinare il lettore a un percorso di approfondimento sul tema del canone estetico, partendo da un discorso storico, filosofico, sociale e, in senso più ampio, culturale, di analisi di ciò che ci ha portati a vivere in una società nella quale la bellezza è diventata una prigione. Solo in epoca contemporanea infatti la bellezza è diventata qualcosa di oggettivo, omologando sensibilità e percezioni di ciò che deve piacere a caratteristiche date, comuni, uguali per tutti, standardizzate.
Gancitano attribuisce nel suo percorso di analisi un valore sociale fondamentale alla bellezza: strumento di controllo (spesso nei confronti del genere femminile, meno soggetto, a partire dall’Ottocento, alle restrizioni materiali e spirituali storicamente imposte), bene di consumo, motore di scelte personali dettate non tanto da elaborazioni individuali, ma da una rete di desideri e sensi di colpa indotti proprio dal canone estetico. Un testo che prova ad affrontare l’attualissima questione della definizione di sé e del modo di relazionarsi sociale dell’individuo attraverso l’esposizione studiata della propria immagine a partire dalla storia di ciò che, nei secoli, è stato definito bello, per arrivare alle radici di molti malesseri di oggi.
Abbiamo intervistato l’autrice in occasione della presentazione della “tappa” di Leggere (h)a Peso, che si terrà a San Secondo Parmense e che la vedrà ospite, insieme a Pietro Del Soldà e Chiara Delogu, nell’appuntamento del 22 maggio alle ore 18.00.
“Specchio delle mie brame”: un titolo accattivante, che riporta alle storie che ascoltavamo da bambini, ma che trova una più precisa definizione nel sottotitolo “La prigione della bellezza”. Desiderio e limite, la bellezza sembra rappresentarli entrambi nel nostro vissuto quotidiano. Da dove nasce questo lavoro?
Questo libro nasce dalla necessità di mettere in ordine e “in fila” gli studi sul tema della bellezza che ho avuto modo di affrontare in questi anni. Quando parliamo di bellezza ci troviamo spesso a pensare che si tratti di qualcosa di oggettivo e immutabile, ma l’attuale idea di “bello”, il canone estetico in cui viviamo immersi, ha in realtà origine in tempi molto più recenti. Fra fine Settecento e inizio Ottocento cambia il ruolo sociale della donna. L’avvento della borghesia implica un cambio radicale di approccio al genere: vengono meno alcune limitazioni, se ne creano altre, in larga parte connesse proprio alla definizione del bello oggettivo, canonico. Gli studi scientifici in merito incominciano sul finire degli anni Novanta del secolo scorso: storia, sociologia, storia della medicina, psicologia concorrono a delineare, con un approccio multidisciplinare, i confini entro i quali la bellezza ha “ingabbiato” la nostra quotidianità. Questo riguarda in particolare il genere femminile, più soggetto, per questioni di potere (economico, politico, culturale) alle pressioni imposte dal canone estetico.
Eppure, anche nel movimento femminista ad esempio, c’è chi sostiene che oggi sempre di più gli uomini siano soggetti alle pressioni di un modello estetico imposto dall’alto…
Le ricerche dimostrano anche questo: l’impatto della bellezza sulla vita e le scelte degli uomini è sempre maggiore negli ultimi decenni. I primi studi in merito risalgono al 2014. Anche il genere maschile subisce le pressioni date dal giudizio estetico, la vergogna per una forma fisica non corrispondente al modello. Anche sul mercato vediamo che vengono immessi molti più prodotti di cosmesi maschile rispetto a un tempo e vengono investite, da parte degli uomini, maggiori risorse economiche in questo settore. Non possiamo però ancora parlare di una “parità” in questo senso e sarebbe anzi auspicabile che questo tipo di parità non arrivi. Le donne subiscono una pressione sociale più forte rispetto alla bellezza e questo è frutto di una storia millenaria, che da una parte le ha relegate al ruolo di maschi mancati, dall’altra le ha definite come qualcosa di mostruoso. Oddone di Cluny definiva le donne un sacco di sterco nascosto da belle fattezze. Questo ha influenzato in modo profondo il modo nel quale la società si è rapportata al genere femminile. Nell’Ottocento poi la società ha iniziato a cambiare: si sono imposte le nuove regole della borghesia, la moda confezionata e, sul finire del secolo, l’avvento prepotente dell’immagine fotografica, poi delle riviste a inizio Novecento. La donna ideale è stata sempre più definita secondo un modello costruito sulla carta, universalizzando le caratteristiche di bellezza, omologando i corpi. L’industrializzazione dell’abbigliamento ha fatto il resto: occorre definire una taglia e, dal punto di vista del canone, la taglia ideale di una donna, il corpo “normale”. Ciò che non è conforme non può essere bello.
Eppure oggi la body positivity sembra segnare un passo diverso anche nel settore della moda, della cura del corpo, anche se, a onor del vero, molte donne vedono in questa “positiva accettazione” a tutti i costi, un altra imposizione, un altro vincolo sui loro corpi, che devono essere amati per quello che sono, pena la colpevolizzazione di chi non si ama, in tutto o in parte…
Il problema della body positivity è che, da movimento in difesa della diversità, finalizzato a promuovere il rispetto di tutti i corpi, si è trasformato in un ottimismo da campagna pubblicitaria, in uno strumento, ancora una volta, di mercato. “Amati” hanno iniziato a dire alcuni spot negli anni Novanta, “perché tu vali”. Questo ha snaturato in parte in messaggio, che non ha portato quindi a un vero cambiamento di canone. In questo senso il tentativo non ha funzionato. Non basta infatti ragionare in senso lato di passaggio culturale. Siamo stati educati e cresciuti secondo schemi ben definiti: l’occhio è abituato a percepire “quel” bello. Le campagne commerciali basate sulla body positivity rischiano a questo punto di peggiorare la situazione, rendendo l’accettazione di sé, del proprio corpo, l’ennesimo obbligo sociale. Quello che dovrebbe cambiare invece è il rapporto individuale col corpo, che dovrebbe tornare a essere più un fatto privato che pubblico. Il punto da smantellare è il dovere.
Ma è possibile quindi, in un contesto dominato dalle logiche di mercato e dalla spettacolarizzazione e iper connessione data dai social network, scardinare questi costrutti estetici?
Il problema è, appunto, di sistema. Il sistema produttivo è in grado di inglobare qualsiasi discorso culturale. La body positivity ne è un esempio: da fatto politico è diventato fatto di mercato. Da una parte le taglie progressivamente si riducono, dall’altra assistiamo alla scelta di diversi grandi marchi di puntare sul vanity sizing, ovvero l’ampliamento delle taglie finalizzato alla gratificazione dell’acquirente. Lavorando sul concetto stesso di taglia alcuni brand decidono di trasformare sul cartellino una taglia 44 in una 42, puntando sull’appagamento della cliente, portata così all’acquisto del capo. In una società di mercato quindi l’unica possibilità di modificare questo status è quella di una presa in carico del tema da parte dei media, avocandosi la responsabilità di quanto successo fino a oggi e lavorando su una nuova immagine da proporre, ma non in occasioni dedicate, sempre. La società di mercato si basa in larga parte sul senso di colpa, sull’idea di aver peccato, del singolo. Si pecca mangiando troppo, non facendo attività fisica, trascurando amici e familiari, dedicando troppo tempo al lavoro: la soluzione proposta è sempre di acquisto, sia che si tratti di una gratifica per un comportamento corretto, sia che si tratti di una “espiazione” per aver peccato appunto. Occorre che ci riappropriamo delle occasioni di gratuità della bellezza, che torniamo a provare emozioni al di fuori della dinamica di acquisto e consumo. La vetrinizzazione a cui volontariamente ci sottoponiamo sui social è, di fatto, una mercificazione, che il mercato sa sfruttare bene quando si parla di bellezza. Solo la gratuità, non solo economica, ma anche dei gesti (non mostrati, ma vissuti), può essere la via d’uscita da questa dinamica millenaria.
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