L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) nel 2021 hanno pubblicato il primo studio congiunto riguardante le malattie professionali e gli infortuni sul lavoro. La ricerca – condotta in un lasso temporale ricompreso tra il 2000 e il 2016 e in un ambito territoriale che ha coinvolto 194 nazioni – ha stimato che, solo nel 2016, sono state circa 2 milioni le morti per causa di lavoro.
Nell’ambito di queste stime emerge anche che la principale causa di morte sul lavoro, sempre nel 2016, sia da addebitarsi al cosiddetto super-lavoro, ovvero alla esposizione a ritmi stressanti e a ore di lavoro esorbitanti; la ricerca ha in particolare stabilito che circa 750mila decessi per malattie cardiache e ictus e ben 23,26 milioni di invalidità e disabilità fossero correlati allo svolgimento di attività lavorativa per una durata pari o superiore a 55 ore settimanali.
Questi dati sono molto allarmanti e pongono in maniera forte l’attenzione sulla necessità di una corretta organizzazione del lavoro, inclusa quella in modalità da remoto (telelavoro, smart-working).
Un’organizzazione del lavoro che sempre più, anche stando alla prevalente giurisprudenza, deve scongiurare – attraverso adeguate misure preventive – una prestazione che ecceda la normale tollerabilità, ovverosia svolta secondo orari o turni di lavoro eccessivamente pesanti o senza la fruizione delle pause e dei previsti riposi giornalieri/settimanali/annuali o comunque in condizioni di particolare gravosità (legata ad esempio a frequenti trasferte, lunghi viaggi in automobile, frequenti pernottamenti fuori sede, ecc.). Nel caso in cui ciò non si verifichi, il datore di lavoro risponde dei danni che si pongono in correlazione causa-effetto con le disfunzioni organizzative sopra esemplificate.
Ma cosa accade se è il lavoratore ad assoggettarsi volontariamente a questo tipo di ritmi e non è l’azienda a chiederli? L’azienda è comunque responsabile?
Sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2087 c.c. e alla luce del disposto dell’art. 41, comma 2° della Costituzione (secondo cui l’iniziativa economica privata, pure libera, non può mai svolgersi in modo da recare danno alla salute e ai diritti fondamentali della persona), il datore di lavoro risponde comunque dei danni anche nel caso in cui la prestazione sia stata resa “spontaneamente” dal lavoratore. La “spontaneità”, secondo questo orientamento giurisprudenziale, deve infatti essere sempre ricondotta al contesto di subordinazione socio-economica cui è sottoposto il lavoratore: il datore di lavoro, pertanto, non può invocare – per essere esente da responsabilità – di avere usufruito di una prestazione non richiesta al lavoratore.
Nel caso in cui dal super-lavoro (volontario e/o imposto dalle disfunzioni organizzative) sia derivato un danno, pertanto, secondo la prevalente giurisprudenza spetta al datore di lavoro dimostrare – per essere esonerato dal risarcimento – che il lavoratore abbia posto in essere condotte contrarie alle direttive impartite in base alla normativa sulla sicurezza e talmente imprevedibili da rappresentare esse stesse causa di esclusione di responsabilità.
Questi principi, come detto, si applicano ovviamente anche al lavoro da remoto: di conseguenza anche nel caso in cui il lavoratore – ad esempio per la propria posizione apicale – abbia comunque la possibilità di modulare la propria prestazione da un punto di vista organizzativo (ad esempio in relazione ai carichi di lavoro o alle modalità di fruizione delle pause e dei riposi), ciò tuttavia non esonera il datore di lavoro da responsabilità, dal momento che residua pur sempre un ampio obbligo di vigilanza a suo carico in ordine alle misure previste in generale dal disposto dell’art. 2087 c.c. (cfr. tra le molte Cass. 27 gennaio 2022, n 2403).
L’art. 2087 c.c., infatti, ricomprende ormai tutti i casi in cui “il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori” (cf. Cass 23 maggio 2022, n° 16580).
Nello specifico ambito del super-lavoro, in definitiva, il datore di lavoro risponde dei danni alla salute non solo nel caso in cui richieda prestazioni lavorative oltre la normale tollerabilità, ma anche quando non ottemperi al dovere specifico di impedire che il lavoratore, anche spontaneamente, esegua il lavoro con modalità che si rivelano nocive per la propria salute.
*Avvocata giuslavorista, curatrice di questo blog.
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