L’influencer all’Ariston ha scelto di scrivere una lettera alla Chiara bambina, quello che ne esce è un monologo che parla di autodeterminazione. Nomina anche i figli, che però lei usa sui social prima che siano in grado di decidere che grado di esposizione avere. Nel suo discorso anche la sofferenza diventa un brand di lusso da esibire; Anche le rivendicazioni diventano un orpello estetico commerciabile, così come era successo anche per la campagna #LoveFiercely, lanciata a sostegno della comunità LGBTQ+
«Ciao bimba». Inizia così il monologo che Chiara Ferragni ha portato sul palco del Teatro dell’Ariston in veste di co-conduttrice della prima serata del Festival di Sanremo, visibilmente emozionata.
L’influencer sceglie di scrivere una lettera alla Chiara bambina, raccontandole le insicurezze, i successi, gli amori e gli ostacoli che ha affrontato nella sua vita adulta ma quello che ne esce è un monologo egoriferito al limite del culto della personalità, che sembra scritto da ChatGPT in un momento di power trip.
Ferragni parla di sé a sé stessa, piangendo per se stessa, mettendo al centro del discorso ancora una volta, come già aveva fatto nel film documentario Chiara Ferragni-Unposted e nella serie The Ferragnez, l’autoreferenzialità, rappresentando il volto umano di quella retorica del “se vuoi, puoi” di chiara matrice neoliberista che convive all’interno del prodotto di consumo che l’influencer e la famiglia allargata incarnano.
Non a caso, mamma e sorelle hanno seguito la diretta da casa, facendo una marchetta a un famoso fast food, con hambuger che si autorigenerano come la famosa pizza, perché da questo evento ci dovevano pur mangiare tutti.
Ferragni ha preparato egregiamente la messa in scena di questo momento: dai contenuti empowerment in cui riusciva a scovare i pochi commenti di hater alle sue foto di intimo, rigorosamente sponsorizzate, tra i bot russi e i moltissimi cuoricini che partono in automatico dal suo entourage di fedelissimi sotto ogni suoi post; commentando in maniera sprezzante i momenti patetici di C’è posta per te e, di recente, con l’immedesimazione con le madri che hanno subito violenza ostetrica, nonostante il parto nel rinomato ospedale di Beverly Hills Cedars-Sinai, dove si è rivolta, per intenderci, anche Beyoncé e del quale, ai tempi, si dichiarava super soddisfatta.
Ogni discriminazione, ogni sofferenza è un abito di scena da indossare come una cosplayer a seconda del trend social del momento e non ci si stupisce che anche a Sanremo abbia deciso di voler lanciare «un messaggio sociale» tramite gli abiti che si è fatta cucire addosso da blasonati brand del lusso
Del resto, rappresenta un’evoluzione più o meno glamour del cartellone pubblicitario umano che avvisava i passanti delle offerte 3x2 nei negozi in centro.
Così, per questa prima serata si è affidata a Maria Grazia Chiuri e a Dior, che più volte ha strizzato l’occhio al femminismo con capi dagli slogan accattivanti venduti a circa 600 euro al pezzo.
Il primo abito, che sembra creato apposta per diventare un meme virale, dispiega il manifesto politico di Ferragni, anzi, il suo claim come recita il post condiviso su Instagram (perché, ricordiamoci, Chiara Ferragni è pur sempre un brand), e lo fa con una stola con scritto “Pensati libera”, una scritta molto famosa sui muri del centro di Bologna la cui paternità è da attribuirsi allo street artist Cicatrici.nere, che viene però qui attribuita a un'opera di Claire Fontaine e che vuole essere una dedica «a tutte le donne che hanno voglia di sentirsi semplicemente loro stesse senza essere giudicate».
In questo modo l’ideologia non è più rappresentata come un conflitto, una lotta o una rivendicazione collettiva che nasce dal basso, come può accadere sui muri di una città da sempre molto politicizzata, ma come un lifestyle esclusivo che introduce un altro tema caro al femminismo, quello dell’autodeterminazione, incarnato dal secondo abito indossato, caratterizzato da trasparenze e ricami che riproducono il corpo di Ferragni al naturale.
Un tema che le sta particolarmente a cuore, specie da quando è molto dibattuto sui social, e che però non sembra essere al centro della riflessione che l’influencer fa sul corpo dei propri bambini.
I FIGLI
Analizzando i contenuti che pubblica sui propri account, prendiamo per esempio quelli di TikTok dall’inizio dell’anno, è infatti impossibile non notare che i grandi protagonisti del suo feed, soprattutto per quanto riguarda le metriche social relative all’interazione, siano proprio i figli, al centro di 31 video su 53.
Ferragni dice che l’abito vuole «riportare l’attenzione sui diritti delle donne, del loro corpo e su come il disporre del corpo femminile dalle stesse sia, purtroppo, ancora considerato discusso e discutibile», eppure non concede lo stesso diritto ai bambini.
Al piccolo Leone, al quale viene chiesto solo un minuto per fare una foto, sorridere, e poi tornare a giocare, o che viene sbattuto sotto gli occhi di 28 milioni di persone in un momento di intimità nella sua cameretta ripreso dalle telecamere di sorveglianza, poche ore dopo lo scivolone mediatico della madre con l’aperitivo in elicottero sui ghiacciai, come se l’innocenza del figlio che la considera «un fiore di mamma» avesse potuto ripulire quell’immagine perfetta di sé che ha creato e che in quel momento era messa in discussione.
A Vittoria, esposta ai riflettori sin dalla nascita, ritratta a poche ora di vita completamente rivestita dal brand della madre e protagonista di decine di video e di meme per il suo appetito o in cui viene utilizzata per battute a sfondo sessuale, come quello in cui la bambina, visibilmente imbarazzata, fa da sfondo alla scritta «quando inizia ad accarezzarti la coscia e ti chiede se ti piace».
I social hanno dato vita a una narrazione egoriferita, individualista e consumistica costruita attorno a “tropi” stereotipati in competizione tra loro per la conquista di un posizionamento social(e) che porta maggior visibilità e, per tanto, un maggior valore commerciale.
Ferragni ha creato la propria identità digitale, il proprio tropo, attorno alla figura della ragazza che si è costruita passo dopo passo, grazie alla forza della propria determinazione.
L’ha fatto delineando un personaggio così forte da diventare contemporaneamente un brand e una vetrina per quei brand che vogliono posizionarsi su un determinato target di mercato.
L’influencer marketing è infatti un grande gioco della visibilità costruito attorno a micro-narrazioni che sono un mix tra una piccola soap opera a misura di smartphone e una televendita in onda 24/24, in cui verità e finzione si intrecciano aggiungendo, costantemente, nuovi elementi per creare un legame emotivo con un pubblico che si trasforma sempre più in un target monetizzabile.
E in questo non potevano mancare i figli, che hanno una funzione sociale: fanno in modo che l’influencer sia percepita come più autentica, servono ad amplificare e ad approfondire il rapporto di fiducia che si instaura con i follower, che possono impersonificarsi e provare affetto per i più piccoli, diventando più suscettibili agli stimoli commerciali.
Il tema dell’esposizione dei minori è stato al centro anche di una domanda durante la conferenza stampa da parte della giornalista dell’Ansa Giorgiana Cristalli, alla quale Ferragni ha risposto «Saranno loro a giudicarci, i genitori agiscono per il bene dei figli», giustificazione che ha ripreso anche durante il proprio monologo.
Ma non dovrebbero essere loro a scegliere come apparire agli occhi di milioni di persone?
Durante la serata Ferragni ha indossato anche un abito bianco con ricamate in nero alcune frasi sessiste che le hanno rivolto gli hater, «come la pagina di un libro che racconta quel disprezzo infruttifero contro il quale lottare ogni singolo giorno», ed è alquanto ironico per me pensare che ho subito delle vere e proprie tempeste di merda dove mi sono ritrovata a gestire insulti e minacce a me e alla mia famiglia solo in due occasioni delle mia vita, cioè quelle in cui suo marito mi ha aizzato contro i suoi follower.
Evidentemente l’educazione digitale deve passare prima di tutto da chi segue la coppia.
Ad ogni modo, la diretta non le dà modo di gestire quel personaggio bidimensionale costruito in ogni dettaglio che la contraddistingue sui social, tant’è che anche quando sceglie di farsi circondare dalle donne che fanno parte di D.i.Re, l’associazione Donne in Rete contro la Violenza, le chiama per nome come se fossero la zia Antonella di Busto Arsizio ed è Amadeus a dar loro la parola.
La prosopopea si conclude con l’abito-gabbia che dovrebbe “liberare le nuove generazioni dagli stereotipi di genere nei quali spesso le donne si sentono ingabbiate”, messaggio che ovviamente accompagna a una foto con la figlia, che però non può decidere autonomamente a quale battaglia prestare la propria immagine, rimanendo così ingabbiata nelle rivendicazioni della madre, ma del resto non è mai stata così tanto tempo senza postarla.
La lettera si conclude con il solito messaggio retorico sulle donne suore o troie che penso di trovare scritto allo stesso modo sulla mia Smemoranda del 2004, una digressione sulla società maschilista e l’invito a dire alle amiche che unite si possono cambiare le cose. Il blog di Diavoletta87 in confronto era avanguardia pura.
Del resto, per ogni battaglia che abbraccia assistiamo a un tentativo costante di desemantizzazione ideologica: le rivendicazioni diventano un orpello estetico commerciabile, così come era successo anche per la campagna #LoveFiercely, lanciata a sostegno della comunità LGBTQ+ proprio in concomitanza del lancio della nuova collezione di occhiali del brand Chiara Ferragni (e con la quale condivideva, guarda caso, hashtag, colori e musica) e di cui non ha più parlato, non hai mai più condiviso il progetto o i numeri, un po’ come è successo coi pandori.
Il plauso, tuttavia, va alla capacità di Ferragni di essere stata la prima a capire che non bisogna umanizzare il brand ma che bisogna brandizzare l’essere umano. Chissà se la piccola Chiara lo aveva già capito.
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