Anche a non voler prendere troppo sul serio le parole di Jean-Patrick Manchette che già alla fine degli anni Settanta affermava che «il romanzo poliziesco è la grande letteratura morale del nostro tempo», nessuno potrà negare quante chiavi interpretative della realtà che ci circonda abbia fornito quella che è stata a lungo considerata solo come una delle molte forme della narrativa popolare. Proprio al maestro del neo-polar si deve del resto il racconto della Francia inquieta del dopo De Gaulle, un misto di pruriti autoritari e revanche da fine impero, una realtà il cui sviluppo Didier Daeninckx avrebbe misurato più tardi allargando lo sguardo ai territori perduti delle banlieue.
E, allo stesso modo, difficile immaginare lo sviluppo urbano e sociale della città diffusa di Los Angeles, analizzata dal compianto Mike Davis, se non anche grazie al supporto dei romanzi di Raymond Chandler prima e di James Ellroy poi. Per non parlare della tumultuosa, e contraddittoria crescita cinese che Qiu Xiaolong ha descritto attraverso le indagini dell’ispettore Chen Cao della polizia di Shanghai. Un elenco che potrebbe naturalmente continuare, e a lungo. Ma una nuova caratteristica sembra essersi nel frattempo aggiunta alle qualità del romanzo criminale.
DA SPECCHIO, talvolta decisamente straniante della realtà sociale che erige a proprio sfondo, il noir, il crime, il poliziesco, tradizionale o del tutto innovativo che sia, si è infatti trasformato in un fenomeno globale, spesso la forma narrativa che trova maggiore corrispondenza, e seguito di lettori, ai quattro angoli del pianeta. Letteratura urbana per eccellenza, nutrita proprio delle contraddizioni che muovono l’esistenza negli spazi metropolitani, il noir – negli ultimi anni anche grazie alle serie tv e allo sviluppo delle piattaforme dell’intrattenimento online – ha finito per fare propria sempre più spesso una cifra da romanzo del mondo globale, quasi lo strumento del racconto di identità, individuali come collettive, cresciute nella dimensione urbana o in realtà che senza essere davvero metropoli non hanno però più niente del piccolo centro o dello spazio rurale.
All’estensione dello spazio di senso del poliziesco ha inoltre corrisposto il moltiplicarsi dei linguaggi e delle forme espressive, altro elemento che ha finito per rendere tale narrativa una sorta di laboratorio permanente della ricerca dentro e intorno alla dimensione del romanzo nelle sue molteplici accezioni. Non stupisce perciò che spulciando tra alcuni titoli del settore, di recente pubblicazione, si possa cogliere sia l’elemento dell’innovazione della ricerca che quello dell’immagine riflessa del mondo globale.
Paul Morel, un artista incarcerato con l’accusa di aver ucciso una delle sue amanti, chiede a Vilela, un ex poliziotto divenuto uno scrittore di successo, di accompagnarlo nei propri progetti narrativi, rivelando all’interlocutore la traccia di un progetto di romanzo durante le ore di visita nel carcere di Rio de Janeiro dove è detenuto. Uscito nel 1973 in Brasile e proposto ora per la prima volta nel nostro Paese da Fazi (pp. 198, euro 18, traduzione di Daniele Petruccioli) Il caso Morel rivelò le straordinarie doti autoriali di Ruben Fonseca, una delle figure di maggior rilievo del noir brasiliano, e di tutta l’America latina, scomparso nel 2020 dopo una lunga e proficua carriera.
IN QUEL ROMANZO, Fonseca annunciava molti dei temi che avrebbero costituito anche in seguito il segno distintivo delle sue storie: da un lato un impianto neorealista, nello specifico la Rio della vita notturna, tra prostitute, malviventi, immigrati provenienti dalle zone povere dell’interno sfruttati in ogni senso e una borghesia decadente e annoiata e, dall’altro, un intreccio spericolato e visionario, nella trama il confine tra le indagini che finirà per condurre Vilela – sorta di alter ego dell’autore – e quanto annunciato dal manoscritto di Morel si sgretola con grazia in più punti, rivelando personaggi dalla personalità complessa e sorprendente.
ANCHE PER SARAH BLAU, scrittrice israeliana che ha esordito due anni or sono con una rilettura in chiave noir del mito del Golem (Il libro della creazione, Carbonio, un’intervista con l’autrice è uscita su queste pagine il 25 ottobre del 2020) il contesto nel quale si muovono i personaggi, in particolare la realtà di Israele segnata dalle spinte religiose e dal crescere della presenza degli ultra-ortodossi, è la base su cui innestare un thriller psicologico dove nessuno appare davvero per ciò che è in realtà. In Le altre (Piemme, pp. 260, euro 18,90, traduzione di Velia Februari) l’intrigo è, almeno in apparenza, tutto al femminile: Sheila sopravvive al barbaro assassinio di due delle sue migliori amiche, Dina e Ronit, con cui aveva iniziato oltre vent’anni prima gli studi di teologia che le avrebbero portate ad interpretare con uno sguardo di genere le pagine della Bibbia.
La storia che ritorna, o meglio il momento nel quale i fantasmi del proprio passato decidono di riscuotere la cambiale che si era contratta con loro, fa da sfondo a Moronga di Horacio Castellanos Moya (Rizzoli, pp. 334, euro 19, traduzione di Raul Schenardi) un autore salvadoregno che per sfuggire alle minacce ricevute nel proprio Paese ha scelto di trasferirsi negli Stati Uniti. Ed in questa realtà che le sue storie mettono in scena il mondo degli esuli, e dei sopravvissuti ai conflitti cui hanno preso parte in patria. Due ex guerriglieri di El Salvador si ritrovano in una cittadina del Wisconsin, entrambi decisi a costruirsi una nuova vita, lasciarsi ferite e lutti alle spalle, dimenticare e farsi dimenticare. Il rapimento di una ragazzina e uno sconosciuto che si è messo sulle loro tracce finiranno per mettere in crisi definitivamente la patina serena delle loro nuove esistenze, rivelando un orizzonte fatto di violenza, dove la deriva degli ex compagni di lotta, la rete delle Maras, il potere dei narcotrafficanti rischiano di costringerli ad iniziare una nuova guerra, stavolta per la semplice sopravvivenza.
L’ECO DELLA MEMORIA che può farsi minaccia assume anche delle forme più squisitamente narrative. Questo il caso dello scrittore Ahmet Ümit, raffinato protagonista del poliziesco turco, che con Il nostro amore è un vecchio romanzo (Scritturapura, pp. 228, euro 18, traduzione di Nicola Verderame) costruisce un giallo letterario che muove dall’omicidio di un ricco bibliofilo nel Pera Palas di Istanbul da parte di una donna che ha nientemeno che le sembianze di Agatha Christie.
Il commissario Nevzat, eroe (suo malgrado) indiscusso delle storie di Ümit e già protagonista di Capodanno a Istanbul (Scritturapura, 2021) dove l’indagine di polizia affianca quella sociale, tra gli echi della vicenda di Gezi Park e il peso della speculazione edilizia nella metropoli che si affaccia sul Bosforo, dovrà vedersela con i fantasmi che sembrano prendere corpo dai libri come con minacce ben più concrete e pericolose. Al fondo, per lui come per Ümit stesso, il vero rischio non sta tanto nel non portare a termine un’inchiesta, quanto nello sprecare quell’occasione che ci è stata concessa per capre davvero chi abbiamo di fronte: «Un’indagine per omicidio non consiste soltanto nella ricerca dell’assassino. E non si tratta nemmeno di risolvere un complesso problema matematico, nel quale i numeri sono persone e le operazioni i fatti. È piuttosto lo sforzo di comprendere a fondo l’essere umano, l’impegno per trovare un giusto modo di vivere».
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